Troppi? Si vedrà. Sono cinque i film italiani alla 78esima Mostra di Venezia, in gara per il Leone d’Oro. E l’augurio, al di là di uno sciovinismo che proprio non avrebbe senso, è che siano tutti meritevoli di essere stati selezionati per il concorso di cinema fra i più antichi e prestigiosi. Oltre che — a bocce ancora ferme — sulla carta tra i più belli degli ultimi anni. Comprendendo anche, in questo giudizio, le altre sedi del grande slam festivaliero: Sundance, Berlinale e Cannes.

Il primo italiano a passare sotto gli occhi del Presidente di giuria, il regista sudcoreano premio Oscar Bong Joon-ho (Parasite) è l’ultimo Sorrentino, È stata la mano di Dio targato Netflix. È una grande bellezza avere l’autore napoletano, abbonato alla Croisette, per la prima volta a Venezia nel concorso principale. Lo fa con una storia intima, che intreccia autobiografia, famiglia e Diego Armando Maradona. Ancora Napoli, con un’altra sua icona. C’è Eduardo Scarpetta a ribadire Qui rido io, nel film di Mario Martone con Toni Servillo, partenopei doc pure loro. Colmo del suo potente animo documentaristico, Michelangelo Frammartino torna al cinema con Il buco.

Filmato fra le grotte dell’entroterra calabrese, ha avuto una genesi lunghissima. Il regista richiedeva una perfezione, che forse è stato in grado di trovare. In quota cinema di genere, con cui la direzione Barbera aveva già sbancato grazie ai Leoni d’oro a La forma dell’acqua (fantasy) di Guillermo del Toro e Joker (comic movie) di Todd Phillips, c’è Freaks Out di Gabriele Mainetti. Un film nato sfortunato, slittato in sala causa Covid, che ora prova a godersi la inattesa ribalta. Un gruppo di circensi a Roma, sotto le bombe della Seconda Guerra Mondiale. È l’opera con meno indizi, fra le 21 del Concorso. E sarà anche l’ultimo dei cinque italiani a sfilare sul tappeto rosso. Di America Latina, esordio veneziano dei formidabili gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, al momento c’è poco di più della testa rasata — assai inquietante — del protagonista Elio Germano. Immagine che già fa gridare al potenziale capolavoro.

Germano richiama un po’ il Brando-Kurtz di un capolavoro accertato, Apocalypse Now. E questo è già un complimento, magari il primo di tanti. Stasera, sventolerà molto tricolore anche in Sala Grande. Madrina della cerimonia di apertura è Serena Rossi (altra Napoli di talento). E il Leone d’Oro alla Carriera, consegnato a Roberto Benigni. Gli viene assegnato come regista. Lo meriterebbe anche come attore (il Leone alla carriera di interprete, è stato invece attribuito alla grande Jamie Lee Curtis). Dunque, premio sacrosanto al “Roberto!” (cit. Sophia Loren) nazionale.

Per non dimenticare. I film francesi all’ultimo Festival di Cannes, in corsa per la Palma (vinta da uno di loro, “Titane”) erano sette. E un solo italiano, Tre piani di Nanni Moretti. Venezia è stata rispettosa nei confronti di due ottimi autori di oltralpe. Stephane Brizè gareggia con Un autre monde e Xavier Giannoli con Illusions perdues. Il festival poi, prova a scoprire Audrey Diwan, regista di L’envenment. Altra domanda. Troppo buoni? Si vedrà.