Sarà il giorno del perdono, al Festival di Cannes? È di certo il momento di Flag Day. Film sul perdono, chiesto alla figlia dal padre criminale. E opera con cui Sean Penn, regista e protagonista, prova a chiedere scusa al Festival. A vicenda, Cannes e Penn si sono dati tanto (dal premio come interprete per She’s so Lovely, ai capolavori di Eastwood e Malick: Mystic River e The Tree of Life). Fino a quando è stata erosa la credibilità di entrambe le parti. Responsabile è Il tuo ultimo sguardo, che il cineasta americano portò in concorso all’edizione 69. Furono fischi, tanti. Che nessuno — nemmeno dopo cinque anni — ha avuto il coraggio di ridimensionare, a fronte di quel pasticciaccio (proprio) brutto, in cui Sean dirigeva soltanto, confidando troppo nella luce delle stelle. Quella dei due protagonisti. Javier Bardem e Charlize Theron, compagna del regista all’epoca delle riprese. La relazione si incrinò presto. E al loro unico lavoro insieme, andò peggio. Il tappeto rosso però, si ricorda scintillante. Almeno quello.

Con Flag Day, la carriera di Sean Penn può solo risalire. Se lo merita, uno dei più grandi attori della sua generazione. Uno degli autori statunitensi più interessanti degli ultimi decenni, da Lupo solitario a Into The Wild. Che non perde il vizio di lavorare in famiglia. Qui, è alle prese con giovani colleghi consanguinei. Gli psicoterapeuti prendano in mano i taccuini. Padre, figlia e figlio sul set, sono tali per davvero. Così mamma Robin Wright (per tutti, sempre la deliziosa Jenny di Forrest Gump. Prima della lady Underwood di House of Cards) non potrà esimersi dal prestare molta attenzione, alla prova dei suoi “pargoli”: Dylan (nata nel 1991, coprotagonista con papà) e Hopper (1993, comprimario) diventati grandi e attori di primo piano, nel film dell’ex marito.

Il ciclone Penn, oscura il resto. Anche perché, oggi debutta in gara insieme al finlandese Compartment Nro 6. La cui paternità artistica è attribuibile al talentuoso Juho Kuosmanen e non al connazionale Aki Kaurismaki. Maestro, che a Cannes è più famoso di Babbo Natale. Il fischio del treno nordico (si tratta di un on the road su rotaie) rischia di finire ovattato, sommerso da tanta, simbolica neve di disinteresse. In caso di capolavoro — speriamo — se ne riparlerà.
Un clima più mite, si respira in Good Mother di Hafsia Herzi, ambientato a Marsiglia. L’attrice franco tunisina, da ragazza ha corrotto i sogni di tanti giovani cinefili, ballando la danza del ventre in Cous Cous di Abdellatif Kechine. Vinse il premio Marcello Mastroianni a Venezia, come interprete emergente. All’opera seconda, quest’anno deve convincere la più navigata collega Andrea Arnold, presidente di giuria a Un Certain Regard. Nella prestigiosa sezione collaterale si stanno vedendo opere ben riuscite, come il russo Delo e il bengalese Rehana Maryam Noor (il mondo, per dieci giorni sosta qui in Costa Azzurra).

Fuori concorso, “signore e signore”. Oggi passa De son vivant di Emmanuelle Bercort, con Catherine Deneuve. Il film segna il ritorno al cinema della diva infinita, che durante la lavorazione era stata colpita da un ictus. Problema superato, scena riconquistata. Il suo Le figlie del sole nel 2018 correva per la Palma, senza lasciare ricordi indelebili. Eva Husson ci riprova, nella spensieratezza del fuori di gara, con Mothering Sunday dallo strepitoso cast britannico. Colin Firth, Olivia Colman e Josh O’Connor (la Regina Elisabetta e il Principe Carlo, nel quarto The Crown) e una icona del Free Cinema inglese, Glenda Jackson. Pensieri sparsi, nati in sala. Ancora non se ne vedono molte, ma è naturale sia un crescendo. Nei film, l’uso delle mascherine sta prendendo piede. La stretta contemporaneità lo prevede. Ci si fa caso, ad esempio, nel doc Birkin-Gainsbourg e nel fresco (ma modesto) Julie di Joachim Trier. Tanto fresco da fare scappare un peto, seduta sul wc, alla protagonista Renate Reinsve. Cose che capitano, per carità. Ma filmarle, quando non se ne vede l’utilità, è quantomeno infelice.

Il carrozzone avanza. Con meno fatica rispetto ai primissimi giorni. Restano, in progressivo miglioramento, le code e una disorganizzazione latente. Questioni che un po’ innervosiscono e non hanno evitato piccole manifestazioni di dissenso, nei confronti di Thierry Fremaux. Il delegato generale ci mette la faccia e un po’ di show. Spesso presenta i film in sala e qualche esclamazione ostile se la becca. Solo applausi invece, a una immagine di vera integrazione. Parte del cast di After Yang del regista Kogonada, americano di origine asiatica, ha regalato al pubblico di Sala Debussy un bellissimo arcobaleno di nazionalità. Manifesto di un film (a Un Certain Regard) di buona sensibilità, ambientato in un futuro che ricorda Blade Runner — anche se in versione zuccherina — in cui la serena integrazione tra popoli è un dato di fatto, addirittura credibile. A Cannes manca Colin Farrell, protagonista di After Yang. Perdonato. Oggi arriva Sean Penn.