Che sia Benedetta! Una esclamazione, non una canzone. E il festival non è lo stesso. A Sanremo 2017, il brano di Fiorella Mannoia. A Cannes 2021, il film Benedetta di Paul Verhoeven. Che finalmente viene svegliato dal suo lungo letargo. La pandemia lo ha fatto slittare di un anno. Come le opere concorrenti di Wes Anderson, Bruno Dumont e Nanni Moretti. Come i grandi eventi posticipati a forza, dall’Europeo all’Olimpiade. Anche qui, nel suo, si può parlare a ragione di qualcosa di importante. Dunque, bene arrivato (altra esclamazione) all’ultimo titolo destinato a fare scalpore, di quel gran trasgressore olandese, regista eclettico di film belli (Elle) e brutti (Showgirls), flop (Starship Troopers) e grandi successi (Basic Instinct che proprio a Cannes, nel 1992, iniziò la sua leggenda).

Anche qui, c’è modo che qualcuno si arrabbi. Non è necessario sia particolarmente cattolico, moralista o benpensante. Il quasi 83enne Verhoeven (li compie il 18 luglio, il giorno dopo la chiusura del Festival. Lui spera di festeggiare in Francia) — si sa — provoca nel mucchio. Siamo nel XVII secolo. La suora Benedetta Carlini (Virginie Efira) arriva in Toscana, al convento di Pescia come novizia. La religiosa fa miracoli. E ama un’altra donna. Alle battute iniziali, Benedetta è il primo favorito per vincere la Palma d’oro, in ordine di apparizione quest’anno sugli schermi della Croisette. A Spike Lee, presidente di giuria e sguardo simbolo che tutto osserva, dalla locandina ufficiale su cui è ritratto — i poster sono appesi ovunque e mettono di buon umore — la trasgressione è sempre calzata a pennello. Ma si dice anche che un regista presidente, spesso renda onore ai film che mai girerebbe (è successo a Spielberg, con La vita di Adele).

A eccezione di Annette di Leos Carax, di portentosa e bellissima follia, sin qui il concorso ha viaggiato su binari certi. Ahed’s Knee di Navad Lapid (Israele) e Lingui di Mahamat-Saleh Haroun (Ciad) rispondono rispettivamente alla quota festivaliera di cerebrale e di sociale. François Ozon affronta a suo modo (bene) la solita commedia borghese: Tout s’est bien passé, con i formidabili André Dussollier e Sophie Marceau. Con Julie – en 12 chapiters, il norvegese Joachim Trier richiama Jules e Jim. Bravi. Ma nessuno dei due registi di oggi, è il François Truffaut di ieri. Per chi ne avvertisse la mancanza, anche questo venerdì sul concorso batte bandiera francese. In serata, Catherine Corsini presenta La Fracture – The Divide. Il punto di vista dell’autrice sui gilet gialli a Parigi.

Quando qualche settimana fa, la ricca selezione della 74edizione del Festival è stata annunciata, non vedendo in prima battuta Where is Anne Frank, qualcuno si è domandato che fine avesse fatto l’attesissimo lungometraggio animato, firmato dall’israeliano Ari Folman. Eccolo, aggiunto in corsa arriva oggi, non per la Palma ma fuori concorso. Gli intenti sono nobilissimi, a partire dallo straordinario spunto narrativo. Che mette i brividi. Kitty — l’amica immaginaria di Anna Frank, destinataria di quanto scritto nel tristemente celebre diario — compare alla ricerca di Anna nella casa della ragazzina (oggi museo, a imperitura memoria della tragedia dell’Olocausto), ad Amsterdam. E vaga alla sua ricerca, per la città. La mano di Ari Folman, di assoluta finezza, permette di confidare in un’opera capace di restare. Come è successo al suo Valzer con Bashir, sulla guerra in Libano, animazione presentata al Festival nel 2009 e candidata agli Oscar. È giunto il momento di un nuovo capolavoro? Speriamo, si vedrà.

Cannes intanto, cerca in largo anticipo sul 2022, una rilevante quota per le nomination agli Oscar. I cavalli da corsa annunciati, sono in tal senso The French Dispatch di Wes Anderson (si vedrà in concorso la prossima settimana) e La ragazza di Stillwater di Tom McCarthy. Al suo protagonista, Matt Damon, è affidata l’operazione simpatia. Dopo la presentazione ufficiale, fuori concorso, l’incontro con il pubblico al “Rendez-Vous” di questo pomeriggio. Damon ci metterà faccia e sorriso, nel tentativo di bissare il successone che Jodie Foster ha ottenuto due giorni fa, sullo stesso palcoscenico. Oltre alle ovazioni meritate dalla Foster, da segnalare fra gli applausi più potenti sentiti sin qui al Festival, quelli indirizzati a una coppia amatissima dagli spettatori francesi: Jane Birkin e Charlotte Gainsbourg.

Jane par Charlotte è un documentario né illuminante né appassionante. Si dipana tra il già — più o meno — noto, nella vita di mamma Jane e figlia Charlotte, anche regista del film (non in concorso). Ma l’affetto dei connazionali accorsi a rendere omaggio alle due signore, e indirettamente al grande Serge Gainsbourg, è totale e travalica le generazioni. Dai nonni ai nipoti, poco più che adolescenti. Viene da pensare a quale saga famigliare di formato italico, da noi possa eventualmente suscitare il medesimo interesse. E raccogliere dal pubblico, una così totale benedizione.