L’uscita di un nuovo libro di Emmanuel Carrère è un evento: i critici considerano Carrère un rompighiaccio, l’autore che esplora sempre nuovi territori letterari, Carrère è lo scrittore che tutti gli scrittori vorrebbero diventare, i suoi libri sono quanto di più raffinato possa partorire il genere autofiction – il genere per eccellenza della nostra epoca –, genere che deve una parte importante della fama proprio a Carrère. Ma Carrère non è solo un autore di culto, è anche l’intellettuale francese in grado di commentare gli eventi principali dei nostri anni, di buttarsi nelle storie, immergersi nel presente, è l’invitato di punta dei festival letterari e di notte può capitare di vederlo ballare con sfrenatezza alle feste editoriali. Infatti Carrère non è solo la sua mente, è anche il suo corpo, non c’è intervista in cui non ci si soffermi sul suo viso segnato in modo emblematico da rughe profonde.

Il suo nuovo libro, uscito sei anni dopo Il Regno, si intitola Yoga, è stato appena pubblicato in Francia dall’editore POL e arriverà in traduzione italiana in primavera (lo pubblicherà Adelphi). Ci sono buone probabilità che il prossimo 4 novembre vincerà il più prestigioso premio francese, il Goncourt, riuscendo così ad aggiudicarsi lo stesso riconoscimento dell’altro fuoriclasse francese, Michel Houellebecq, col quale c’è una sana, ormai esplicita, competizione letteraria. In una pagina di Yoga, Carrère ricorda di aver elogiato su Le Monde il libro Sottomissione di Michel Houellebecq e quando qualcuno gli fa maliziosamente notare che la recensione era entusiastica, per evitare di fare la figura dello scrittore geloso di Houellebecq, ammette: «cosa che onestamente sono».

Yoga è per prima cosa il racconto di un libro sullo yoga che Carrère vorrebbe scrivere. Ma autore e lettore vedono questo progetto trasformarsi di pagina in pagina, svanire, riprendere forma. Tutto ha inizio con un ritiro di meditazione Vipassana, in cui i partecipanti sono staccati dal mondo per dieci giorni, non possono leggere né telefonare, non possono parlare tra loro, né possono andar via. Per Carrère è l’occasione per riflettere su «quel magma che chiamiamo identità» (cosa fa Carrère nei suoi libri se non riflettere su quel magma chiamato “identità”?). La meditazione è alterata dall’attitudine di Carrère a trasformare ciò che vive in parole e libri. Anche in questo caso sembra che la sua anima di scrittore prevarrà sulla meditazione, costretto da sé stesso a prendere appunti mentali eternamente. È un incubo vivere ogni istante progettando di scrivere ciò che si sta provando. «In un momento in cui potrei semplicemente vivere, si manifesta il bisogno di metterlo in parole – scrive- Io non ho accesso diretto all’esperienza, devo sempre metterci di mezzo le parole».

Se non fosse un libro di Carrère, il saggio sullo yoga procederebbe in modo lineare. Nel libro invece irrompono di continuo nuovi eventi, alcuni pubblici, come l’attentato terroristico a Charlie Hebdo, altri privati, come una separazione sentimentale molto sofferta e soprattutto una grave crisi depressiva che trascina tutto il libro in un gorgo. Dopo aver scelto di raccontare molte storie sinistre, tutte attraversate dal desiderio di fare luce sui meccanismi più oscuri della psiche umana – I baffi, L’avversario, Limonov, o la biografia di Philip Dick – era inevitabile che Carrère arrivasse a confrontarsi direttamente con la propria mente, a raccontare il proprio “mostro interiore”. In Yoga Carrère è l’autore del libro, è il protagonista, è l’antagonista. Nulla ostacola di più la sua felicità quanto sé stesso, un avversario difficile da combattere anche perché inafferrabile (lui che era stato testimone del Male con volti molto concreti come nel caso dello tsunami nello Sri Lanka e della morte per cancro della sorella della compagna, raccontati in Vite che non sono la mia).

Se nella prima parte del libro narcisismo e ego ingombrante fanno ancora parte del vezzo di un egocentrico di successo (capitava già nel Regno), appena la malattia bipolare è attestata clinicamente, si abbatte nelle pagine una tempesta e il libro precipita in un’atmosfera angosciante. Le crisi depressive si fanno sempre più violente. Carrère è internato in una clinica dove viene sottoposto a una seria di elettrochoc: «piango, piango, dico che voglio morire, so che uccidermi non è il loro lavoro ma li supplico di farlo comunque». La strada in discesa percorre il vortice scivoloso e tetro di follia e psichiatria. Quanto più la marea nera dilaga nella sua testa tanto più il suo “io” dilaga nel libro facendo ombra su tutto – ombra che rende nebbiose persino le pagine legate a un reportage in Iraq e quelle sull’esperienza nell’isola di Leros per aiutare dei rifugiati.

Fino alla fine, vita e scrittura si contendono l’anima di Carrère. «Sono un uomo narcisista, instabile, schiacciato dall’ossessione di essere un grande scrittore», scrive Carrère. «Cerco di diventare un essere umano migliore perché ciò farà di me un migliore scrittore», aggiunge. È inevitabile che tenere i propri pensieri e le proprie emozioni sotto una lente d’ingrandimento non sia d’aiuto per chi voglia liberarsi di sé stesso. Ai vecchi lettori di Carrère questo libro farà ripercorrere la sua carriera. È una tentazione che colpisce Carrère stesso: rileggere i suoi libri come sintomi e non più come opere letterarie, ritorna sul Regno, su Un romanzo russo (dove si mise a nudo, ma danneggiò persone a lui vicine), su Vite che non sono la mia (dove imparò a chiedere l’autorizzazione alle persone che nominava).

Per i critici, si è detto, Carrère è un rompighiaccio. Ma che cosa si incontra esattamente spingendosi oltre i confini dell’autofiction? Questo libro produce una strana sensazione. È come se la mappa della letteratura sottostesse alle stesse leggi del planisfero: così come se ci si spinge troppo a est si rischia di tornare a ovest, pare che praticando l’autofiction in modo radicale – «la letteratura è il luogo dove non si mente», azzarda qui – si torni in realtà a una forma nota: il diario. La divisione di Yoga in capitoli brevi, l’andamento discontinuo e il tono da confessione lavorano di soppiatto a smontare la struttura ibrida dell’autofiction (quel miracoloso bilico tra realtà e finzione tenuto insieme da un io in cui riconosciamo i tratti dell’autore). L’illuminazione che colpisce Carrère durante la scrittura («la mia autobiografia psichica e il mio saggio sullo yoga sono lo stesso libro») non è altrettanto evidente per il lettore.

Carrère merita tutto il successo che ha. Che il Goncourt lo consacri o meno ormai è e resterà uno dei più importanti autori del pianeta, scrittore di indiscussi capolavori. Questo non vuol dire che Yoga non sia un libro tanto sincero quanto imperfetto. Di sicuro segna un punto di non ritorno nel viaggio dentro sé stesso. La direzione che prenderà al suo prossimo passo sarà, di nuovo, un evento editoriale e con tutta probabilità un passo per allontanarsi dalla sua ombra.