Ventisei leader stranieri, tra cui il presidente russo Vladimir Putin, ma soprattutto Kim Jong Un, il leader nordcoreano che più di ogni altro Capo di Stato ha da guadagnare dalla passerella per le commemorazioni del V-Day cinese il 3 settembre: il “giorno della vittoria”, ovvero l’80esimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale e dell’occupazione giapponese della Cina, che si preannuncia come un evento monstre in cui l’esercito ultrapompato e ultrafinanziato da Xi Jinping farà sfoggio delle proprie rinnovate capacità belliche, affinché l’Occidente (e Taiwan) intendano.

L’assenza dell’Occidente

Non ci saranno ovviamente i politici occidentali tra i 26 Capi di stato e di governo che assisteranno alla parata di Pechino. Unica eccezione sarà la presenza del primo ministro slovacco Robert Fico (salterà invece opportunamente l’appuntamento l’ungherese Viktor Orbán), antieuropeista di maniera e filorusso di elezione, che con questa decisione conferma la propria distanza da Bruxelles dopo essere già stato l’unico politico dell’Unione a presenziare alla parata di Mosca per la vittoria russa nella Seconda guerra mondiale il 9 maggio scorso. Putin, Kim e Fico siederanno fianco a fianco ad Alexander Lukashenko, trentennale presidente della Bielorussia, e a Masoud Pezeshkian, presidente della traballante Repubblica islamica: una sorta di spot, o se vogliamo una photo opportunity, che vuole sottolineare plasticamente gli schieramenti ideali in corso di quest’epoca di alleanze in via di ridefinizione – politiche, militari e ovviamente economiche.

Kim Jong Un non si recava in Cina dal 2019, e già questo è un segnale politico di una certa rilevanza. L’alleato “scomodo” di Pechino negli anni della prima presidenza Trump – quando il tycoon del fortunato slogan MAGA lo aveva eletto a “nemico pubblico numero uno” – oggi assurge a figura strategica per la retorica di potenza cinese, che si avvantaggia di una potenza nucleare (non era ancora così nel 2019, quando Pyongyang era allo “stadio iraniano” per la fabbricazione della prima bomba, vicino al punto da minacciare ma ancora con l’arma spuntata) in grado di corroborare a sua volta le manovre occidentali nel Pacifico e fungere da deterrente anche per Tokyo e Seoul.

Insomma, la scelta diplomatica cinese di rinsaldare le fila e allargare il mosaico di alleanze strategiche è un toccasana per i partner minoritari del gigante asiatico, da sempre abituato a considerare la forma come parte essenziale e anzi indispensabile per la sostanza. Una sostanza che per Pechino ormai non è più sinonimo di sopravvivenza, a differenza di ciò che questo appuntamento rappresenta invece per Mosca e Pyongyang, partner minori dello schieramento orientale alla costante ricerca di visibilità e riconoscimento internazionale.

Luciano Tirinnanzi

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