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Quei microfoni rimasti accesi dopo il processo Berlusconi. Tra carote e bastoni
Luogo: Tribunale di Milano; data: 18 settembre 1996; imputati: Paolo e Silvio B. Se l’udienza è ormai chiusa, non lo sono anche i microfoni dell’aula. Involontariamente, resta così immortalato – dal sistema audiovideo – lo scambio di battute tra il pubblico ministero dr. Colombo e il presidente del collegio, riguardo all’avvenuto accoglimento di un’istanza difensiva di anticipazione [ndr: avete letto bene] della successiva udienza. «È la tecnica del bastone e della carota», spiega il giudice al collega d’accusa, riferendosi al metodo da usare con gli imputati.
La difesa – i soliti maliziosi – vi coglie una «volontà colpevolista» ed investe la Corte d’appello di un’istanza di ricusazione. Quella frase avrebbe contenuto «l’espressa manifestazione del proposito di… condannare aprioristicamente simulando equilibrio e imparzialità»; nonché la confessione del presidente «di essere ormai vincolato all’imperativo che gli impone di mascherare, con l’apparente benevolenza (la carota), il bastone da usare nei confronti degli inquisiti». Per i magistrati d’appello, «le infelici ed inopportune frasi» del presidente non costituiscono però «indizi gravi e precisi della volontà» del giudice «di giungere comunque ad un verdetto di colpevolezza».
Ricusazione respinta
La ricusazione è respinta, pur contenendo la decisione censure molto severe all’operato del tribunale: «Mai il presidente avrebbe dovuto compiere quell’esternazione al rappresentante del Pm, pur essendo un “collega” ed appartenendo ad un ufficio giudiziario particolarmente forte e agguerrito, tale da incutere anche, all’occorrenza, una certa dose di “timore reverenziale”». Si è trattato di «una grave caduta di stile … con indubbia perdita di prestigio». Lasciato formalmente in sella, il presidente riceve comunque un suggerimento: «Perso il prestigio… avrebbe fatto bene, per ridare la dovuta serenità alla vicenda processuale, ad astenersi, consapevole del fatto che comunque il germe del dubbio era stato ormai da lui stesso diffuso».
Difetto della coscienza e volontà
Anche agli imputati ricusanti (e dunque, ai loro difensori) non si risparmia una risciacquata: «Male hanno fatto a non evidenziare [le] asserite patologie processuali nelle sedi opportune», leggi CSM (che, in realtà, pur investito della questione, ne escluse la rilevanza disciplinare con sentenza 17 dicembre 1988, per difetto della «coscienza e volontà di porre in essere una condotta idonea a ledere il prestigio e la credibilità dell’istituzione giudiziaria»). Con mezza vittoria in tasca, la difesa ricorre in cassazione, ma nel frattempo il presidente decide di astenersi: fine della contesa.
Troppi bastoni
Somiglia a un apologo, questa vicenda processuale in cui vengono alla ribalta parecchi temi di lungo periodo della nostra macchina punitiva: imparzialità traballanti o inesistenti; rimedi difensivi inesorabilmente spuntati da una giurisprudenza sempre troppo domestica; ferite alla presunzione d’innocenza; peso delle Procure sui giudicanti e mancata separazione delle carriere; cultura della giurisdizione (dei giudici). Ancora oggi, qualche carota; troppi bastoni.
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