Società
Regno Unito, record di suicidi femminili dopo storie di abusi. Le famiglie chiedono l’indagine per omicidio
Nel Regno Unito, sempre più famiglie chiedono che i suicidi legati alla violenza domestica siano indagati come possibili omicidi. Non solo perché le donne si tolgono la vita dopo anni di abusi, ma perché quei gesti, secondo molti, non sono “scelte individuali”: sono l’ultimo atto di un processo di distruzione condotto da qualcun altro (The Guardian, 25 ottobre 2025).
Secondo il Domestic Homicide Project, in un solo anno 98 donne si sono suicidate dopo una storia di abusi, contro 80 uccise direttamente dal partner (Home Office, 2024). Da tempo, la letteratura mostra che subire violenza da un partner aumenta il rischio di tentativi di suicidio, ma resta difficile stabilire un nesso causale certo (Devries et al., PLoS Medicine, 2013). Un’analisi del 2025 ha rivelato che una su quattro tra le donne morte per suicidio aveva una storia documentata di violenza domestica (Bhavsar et al., The Lancet Regional Health – Europe, 2025). Nel 2024 il governo britannico ha rinominato le Domestic Homicide Reviews in Domestic Abuse Related Death Reviews, includendo i suicidi tra gli esiti da indagare quando si sospetta che l’abuso abbia contribuito alla morte (Home Office, 2024). È solo un cambio linguistico o un passo verso il riconoscimento di una responsabilità indiretta dell’abusante?
Il Presidente Sergio Mattarella ha ricordato che “la violenza sulle donne non è un’emergenza, ma una tragedia quotidiana che interroga la coscienza della Repubblica” (25 novembre 2023). È la stessa cecità che rischiamo di perpetuare quando ignoriamo le forme di violenza che non lasciano lividi ma scavano nella mente. Non è soltanto la legge a incrinarsi: è il confine, fragile e invisibile, tra violenza fisica e psicologica. La prima colpisce il corpo e si riconosce subito; la seconda agisce per sottrazione, svuotando l’identità della vittima. Isolamento, controllo economico, umiliazione: forme di violenza che non servono il sangue per essere letali. Ma la società e spesso le istituzioni continuano a riconoscere solo ciò che è refertabile. La sofferenza psichica prodotta da un abuso reiterato non lascia lividi, ma può condurre allo stesso esito di una coltellata.
In Italia il confine tra diritto, salute e cultura resta fragile. Quante morti per suicidio tra donne seguite dai servizi psichiatrici o sociali includono una storia di violenza domestica? Non lo sappiamo: manca un sistema che incroci i dati di sanità, giustizia e servizi sociali, seppur qualche timido segnale di raccolta arrivi. Ogni giorno, infatti, i centri antiviolenza e i consultori incontrano donne che portano addosso ferite invisibili, esiti di un controllo psicologico che distrugge l’autostima prima della vita.
Purtroppo, si tende ancora a distinguere tra violenza fisica e psicologica, come se la prima appartenesse al codice penale e la seconda al codice morale. Ma questa distinzione è ormai insostenibile: molte donne che subiscono abusi psicologici cronici sviluppano depressione, disturbi post-traumatici o comportamenti autolesivi. È un continuum di danno, non una cesura. Forse, oltre che valutare se è necessario punire di più dopo, è opportuno anche creare meccanismi per intervenire prima: riconoscere che l’abuso psicologico è un determinante di salute e un problema pubblico. Perché per fermare la violenza bisogna prima imparare a vederla, anche quando non lascia lividi sul corpo.
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