Poi, anni fa, abbiamo scoperto che Flavio Bucci viveva in una casa famiglia, perso, direbbe Pasolini, “nell’oro della pace di un’interminabile domenica”, un racconto che chiamava amarezza per lui, per la sua storia, e ancora per il tempo che lo mostrava pubblico eroe, prim’attore, protagonista, il nome in apertura di manifesto, Bucci, già Ligabue sul Primo Canale. Poi, sempre lui, sebbene in ruoli di servizio, secondari, le cose che si fanno, meglio, che “vanno fatte per campare”, non più il Flavio-Ligabue-Don Bastiano, non più il suo profilo carenato in sella alla motocicletta che brucia i filari della Bassa, piuttosto il Flavio protagonista di un tempo eroico, di un tempo e di una città svaniti, pellicole come Lucignolo di Massimo Ceccherini, 1999, dove Bucci impersona il padre, avvocato accusatore, del protagonista o ancora La grande rabbia di Claudio Fragasso, 2016.

Non si dica ipocritamente, adesso, pensando a questi ultimi suoi disgraziati anni, che certe frasi non andrebbero mai pronunciate, ossia che «… la vita è una ed è tua, puoi farci ciò che vuoi, guadagnavo anche due milioni al giorno: ho speso tutto in donne, manco tanto, che me la davano gratis, vodka e cocaina. Scarpe e cravatte che non mettevo mai, mi sparavo cinque grammi di coca al giorno, avrò bruciato 7 miliardi». Anche nella “dissipatio” brilla la grandezza. D’altronde, ognuno è responsabile del proprio male, del proprio abbandono, del proprio precipizio, e non si faccia, pensando a Bucci che raggiunge infine il paradiso degli incorreggibili, dei “chiodi storti”, come chi, consegnando una moneta all’accattone, precisa, pronuncia un “… mi raccomando, non se li beva, eh?”.

Merita rispetto il destino che Flavio ha donato a se stesso, al proprio precipizio, all’avere voluto affrontare rovinosamente la propria sconfitta, fosse anche per fragilità, o magari per semplice vizio assurdo, o piuttosto perché questa vita, questa Roma, il mondo della televisione, del cinema e del teatro, per come si è infine travisato nella sua infingardaggine, potrebbe, perché no, suscitare ribrezzo in chi è stato Don Bastiano, il brigante ribelle. Ecco, forse in Flavio che dona il rigor mortis di Evangelisti al film di Sorrentino, nel suo volto terreo, nel circonflesso dei suoi occhi segnati dalle rughe, le cornee immerse nel martirio dell’alcol e della cirrosi, c’è la più straordinaria metafora di un tempo finito per consegnarci all’ordinaria miseria del dopo che non aveva più attenzione per un maestro com’era lui.

Avatar photo

Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube. Il suo profilo Twitter @fulvioabbate