In un’epoca segnata dal ritorno della guerra in Europa e in Medio Oriente, il libro del giornalista Roberto Arditti (Hard power. Perché la guerra cambia la storia, pubblicato da Giubilei Regnani) diventa una bussola indispensabile per orientarsi tra difesa, sicurezza e geopolitica. Un’analisi lucida e senza sconti che smonta illusioni e affronta la realtà del potere.

Nel suo libro lei sostiene che la storia la scrivono i vincitori e che la guerra è un motore di cambiamento inevitabile. Dopo la pandemia e due guerre nel cuore dell’Europa e del Medio Oriente, il mondo è entrato in una nuova era dell’hard power?
«No, è sempre stato così. Forza militare e interessi economici sono le leve di cambiamento, il resto segue a grande distanza. È l’Occidente, con i suoi (per fortuna) pacifici decenni alle spalle che fatica ad accettare la realtà, illudendosi di poter attribuire alla politica o alla diplomazia un ruolo centrale anziché secondario (il che non vuol dire irrilevante)».

L’America di Donald Trump e la Russia di Vladimir Putin: due modelli di potere muscolare, diversi ma entrambi assertivi. Quanto rischiano di ridefinire le regole del gioco internazionale nei prossimi anni?
«Molto, ma non possono più farlo in litigioso rapporto di coppia. Le monarchie del petrolio, il gigante demografico indiano, quello tecnologico cinese e persino la Vecchia Europa sono attori sul palcoscenico globale. Aggiungerei anche Turchia, Israele, Malesia, Australia, Brasile. Il mondo non è mai stato così grande e, quindi, attraversato da tensioni varie. Di certo c’è un fatto: le fragili cancellerie europee stentano a tenere il passo con poteri consolidati che durano decenni».

L’Ucraina, oggi sotto attacco, ha maturato un’esperienza militare e tecnologica senza precedenti in Europa. Può diventare, tra cinque anni, la punta di diamante di una vera Eurodifesa?
«Oggi nessuno, americani a parte, dispone di decine di migliaia di donne e uomini con esperienza di combattimento moderna come l’Ucraina. Tutto ciò avrà certamente un peso anche finita la guerra. Quanto accaduto dal 2022 a oggi nelle province contese della “Piccola Russia” ha fatto riscrivere tutti i manuali tattici del mondo, non dimentichiamolo».

L’hard power si nutre di risorse concrete. Le terre rare, i minerali strategici, il litio, il titanio sono ormai armi invisibili. Quanto conta oggi il controllo delle materie prime per il futuro dell’industria bellica e della sicurezza nazionale?
«La nostra vita (salute, lavoro, famiglia, divertimento, socialità, cultura) dipende da quei minerali, da quei metalli, da quelle leghe. E la guerra moderna è totalmente legata alla disponibilità di dati in formato digitale. Teniamo presente che a breve sui campi di battaglia (è già così oggi, molto più di quanto si pensi) di terra, cielo e mare saranno protagonisti mezzi armati di brutale potenza privi di controllo umano a bordo. Per farla breve: chi controlla le catene di estrazione, lavorazione e inserimento nei cicli produttivi di quei materiali controlla la storia, non la cronaca. Traduco: l’Europa deve aprire (o riaprire) tutte le miniere disponibili entro cinque anni. O saranno guai».

Lei dedica ampio spazio al dominio dello spazio: satelliti, sistemi di sorveglianza, missili ipersonici. Stiamo entrando in una “corsa allo spazio” 2.0, in cui vincerà chi controllerà le orbite?
«Stiamo entrando? Senza assistenza satellitare occidentale l’Ucraina avrebbe perso la guerra in meno di un mese. Senza massiccio uso di quei supporti le operazioni americane e israeliane sull’Iran potevano, al massimo, essere un buon racconto di fantascienza. Lo spazio, a vari livelli orbitali, è il principale campo di battaglia/competizione geopolitica nella fase 2025/2050. Poi vedremo cosa succederà su luoghi come Luna o, più avanti nel tempo, Marte».

Nel suo libro, l’hard power è strettamente legato alle filiere di sostegno ai conflitti. In Medio Oriente, se l’Iran smettesse di fornire armi e denaro ai suoi proxy — Hamas, Hezbollah, le milizie in Siria e Yemen — la pace potrebbe davvero cominciare…
«L’Iran ha scommesso per tre decenni sull’ignavia occidentale, spargendo cultura di morte, piegando a uso politico la versione intransigente dell’Islam, finanziando tutto ciò che poteva mettere in difficoltà Israele (con la compiaciuta indifferenza di gran parte degli Stati islamici). Adesso c’è qualcosa di nuovo, dopo il 7 ottobre, dopo la cacciata di Assad, la messa all’angolo di Hamas e Hezbollah. Invece di blaterare di Stato Palestinese adesso (una ridicola provocazione di rara inconcludenza) dovremmo scommettere sugli accordi di Abramo, sedendoci al tavolo con Trump e Bin Salman. Gaza è la criticità, ma non è la questione che conta davvero. Basta contare i metri di altezza del muro egiziano al confine sud per capirlo, ma le anime belle dell’Europa formato aperitivo amano guardare sempre il dito e mai la luna».

Il caso Spagna: Madrid ha rinunciato all’acquisto degli F-35 dagli Stati Uniti, puntando su alternative europee. È un segnale di autonomia strategica o un rischio di dipendenza da fornitori meno performanti?
«È un segnale politico, perché Sanchez vuole dire “c’è vita oltre Trump”. Tanto sta nella NATO, quindi se c’è un problema ci pensano comunque gli americani, che usano gli F-35. Quindi, ripeto, è tutta politica. Detto ciò, ben vengano programmi ambiziosi per armamenti europei di nuova generazione, quindi dico senz’altro avanti tutta con GCAP, il caccia di sesta generazione su cui stanno lavorando Italia, UK e Giappone».

Il conflitto israelo-palestinese è tornato a ridefinire le agende globali. Che cosa dice l’hard power sul futuro di Israele e sulla capacità dell’Occidente di difendere i propri alleati?
«Dedico a Israele un capitolo del libro. Quella nazione è costruita sulle sue forze armate, che difendono già tra il 15 e il 16 maggio del ’48 uno Stato nato da poche ore (la dichiarazione alla radio di Ben Gurion è del 14 maggio). Quindi non si capisce niente di Israele se non si studia l’azione delle sue forze armate. Che, negli ultimi due anni, hanno retto di fronte agli attacchi congiunti e contemporanei di Hamas da Gaza e Cisgiordania, Hezbollah dal Libano, Houthi dallo Yemen, milizie varie dalla Siria e Pasdaran dall’Iran. Certo, c’è anche il mostruoso fallimento del 7 ottobre 2023. Adesso in Europa va di moda accusare Israele di genocidio: è la prova più limpida della fascinazione che stiamo sviluppando per il nostro più pericoloso carnefice (e non parlo della povera gente di Gaza)».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.