Il 30 aprile Stati Uniti e Ucraina hanno firmato un accordo sui minerali, considerato una condizione per il proseguimento del sostegno politico, ma soprattutto militare ed economico. L’intesa risulta migliorata rispetto alle bozze iniziali, ma è stato firmato scavalcando lo stesso parlamento ucraino senza offrire, in cambio, reali garanzie di sicurezza.

Il contesto è delicato: Washington sta premendo su Kyiv perché consideri perduti i territori già sotto il controllo di Mosca e sta valutando concessioni economiche alla Russia per favorire la fine delle ostilità. L’idea di fondo dell’accordo è sensata: coinvolgere capitali esteri nei settori minerari ucraini per attrarre investimenti destinati alla ricostruzione post-bellica. Tuttavia, la logica economica su cui si basa, presenta molte fragilità.

La ricchezza mineraria ucraina: un mito sovrastimato

Secondo i termini dell’“Accordo tra il Governo dell’Ucraina e il Governo degli USA per l’istituzione di un Fondo di Investimento per la Ristrutturazione Ucraina-Usa”, metà dei ricavi futuri ricavati dall’industria mineraria ucraina sarà destinata a un fondo di investimento congiunto destinato alla ricostruzione. Ma le entrate effettive sono incerte: nel 2023, il settore minerario ha generato solo 1,5 miliardi di dollari, la stragrande maggioranza dei quali proviene dalle royalties sulla produzione di gas naturale.

Le stime minerarie iniziali (migliaia di miliardi di dollari) sono state smentite, in quanto basate su dati sovietici obsoleti e su una confusione tra “depositi” (minerali geologicamente presenti) e “riserve” (minerali economicamente estraibili). Fermo restando che l’Ucraina possiede terre rare in quantità limitata – come spiegato su Il Riformista del 30 aprile e del 3 maggio – l’affermazione che l’Ucraina possieda 500 miliardi di dollari in minerali critici è infondata: non esistono “riserve” certificate da organismi sovranazionali; inoltre, il mercato di tutti i minerali chiave considerati cruciali per la transizione energetica (cobalto, rame, grafite, litio e nichel, oltre alle terre rare) ammonta – su scala planetaria – a meno di 500 miliardi di dollari all’anno.

Di fatto, la maggior parte del valore che l’Ucraina ha da offrire al fondo, risiede negli idrocarburi, nel carbone e in (poco) uranio, non nei minerali critici. E, sebbene l’Ucraina abbia depositi rilevanti di grafite, manganese e titanio, questi non risultano più abbondanti di quelli disponibili in altri Paesi europei. Un’altra questione è individuare gli attori – in Usa e nel mondo – disposti a investire in un Paese gravato da enormi instabilità militari, economiche, politiche e – dopo sei anni dalle ultime elezioni – anche sociali. I titoli di Stato ucraini presentano rischio di rimborso altissimi e sono scambiati sui mercati dei capitali internazionali a livelli distressed.

La Russia ha provveduto all’integrazione

Ricordiamo anche che una parte consistente delle risorse minerarie ucraine si trova nelle regioni ora in territorio russo: due dei quattro giacimenti di litio, oltre a depositi di titanio, minerali critici e la maggioranza delle riserve di carbone e gas. Il bacino del Dnipro-Donetsk rappresentava il fulcro della produzione energetica ucraina con l’80% delle riserve provate di idrocarburi e il 90% della produzione di gas; ma Mosca ha già integrato ufficialmente queste risorse nel proprio sistema economico, come si può vedere nella “Strategia di sviluppo minerario della Russia” del 2024. Il porto di Mariupol – dove nel 2022 fu annientato il battaglione Azov – è già in piena attività: rappresenta un nodo chiave per le esportazioni di cereali, prodotti chimici e metallurgici, soprattutto carbone e rame. Il paradosso è che, mentre Washington spinge Kyiv a fare concessioni territoriali, la Russia da anni trae benefici economici da quei territori e l’accordo sui minerali ignora questa realtà.

Quali terre rare? Quello che conta sono petrolio, gas e uranio

Un altro paradosso è che l’Ucraina si troverebbe a competere proprio con Usa e Russia sull’export di gas e petrolio. Ma puntare sui fossili come fattore principale contrasta con gli impegni verso una ordinata transizione energetica a suo tempo assunti dall’Ucraina e con i target di decarbonizzazione europei, vanificando ogni residua possibilità di centrare non solo i target economici e sociali, ma anche quelli di sostenibilità necessari per un ipotetico futuro ingresso di Kyiv nella Ue.

Per quanto riguarda, invece, le altre risorse minerarie – destinate alla transizione energetica ed in particolare alle rinnovabili ed alla mobilità sostenibile – l’accordo si trova anche qui in fuorigioco. Trump ha vinto il sostegno delle potentissime lobbies “oil&gas”, e quindi le elezioni, promettendo il reindirizzamento delle politiche energetiche Usa verso l’aumento della produzione fossile. Si è poi affrettato a concretizzare queste promesse con una raffica di provvedimenti esecutivi. Quale investitore americano sarebbe oggi pronto a scommettere su un futuro più attento all’ambiente e pure in un Paese ad altissimo rischio?

Intanto, la guerra ha devastato l’industria siderurgica ucraina, già concentrata sulla lavorazione di minerali industriali di base, come il minerale di ferro per la produzione di acciaio, piuttosto che sui minerali critici. Ma anche le esportazioni di minerale di ferro e di acciaio sono diminuite dal 2022. Il calo è attribuibile non solo alla distruzione di acciaierie chiave, riconvertite per l’industria bellica e quindi considerate obiettivi legittimi e in gran parte distrutte, ma anche alla povertà energetica e alla perdita di forniture essenziali di carbone da coke. Di fatto, invece di risalire la catena del valore producendo prodotti siderurgici finiti o semilavorati, l’Ucraina si è spostata verso il basso, diventando sempre più dipendente dalle esportazioni di materie prime a basso margine, una tendenza che mina il proprio sviluppo industriale e la resilienza socioeconomica e ambientale a lungo termine. E questa si innesta in un calo globale del consumo mondiale di acciaio.

Un accordo fragile, ma la pace è ancora lontana

L’accordo presume che l’interesse economico Usa possa garantire una maggiore sicurezza per l’Ucraina, ma non affronta le dinamiche strutturali della guerra né propone una base solida per la ricostruzione. Prima del 2022, la dipendenza economica di Mosca dalle industrie ucraine non ha impedito l’invasione; oggi l’occupazione continua a generare vantaggi economici per la Russia. Le modalità di negoziazione dell’accordo dimostrano che la forza vale più del diritto: non è la strada giusta per costruire la pace.

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Chimico industriale, Chimico teorico, Giornalista, Comunicatore scientifico con una grande passione per la storia e per la ricerca in campo energetico. Autore di 900 analisi, saggi, articoli di divulgazione e di circa 100 articoli scientifici, brevetti, conferenze, contributi a congressi, 2 libri.