La notizia della scarcerazione di Nello Mormile, il dj che guidò contromano in Tangenziale causando l’incidente in cui morirono la sua fidanzata Livia Barbato e un automoblista, Aniello Miranda, ha suscitato clamore in città. Il caso, nell’estate del 2015, ebbe grande risonanza. Mormile è stato ora scarcerato perché ha ottenuto l’affidamento in prova ai servizi sociali e la sua storia è l’esempio di come la pena deve e può essere rieducazione e rielaborazione, e non solo privazione.

Ma è anche lo spunto per una riflessione più ampia che l’avvocato Andrea Raguzzino accetta di fare con il Riformista, esprimendo la sua posizione di giurista e non quella dei familiari di una delle vittime che ha assistito. «Ci tengo a sottolineare – dice in premessa – che non ho nulla da obiettare al rilascio anticipato di Aniello Mormile. È stato ristretto per circa sei anni e mezzo in carcere, dove ha quindi scontato i due terzi della sua pena. Mi risulta che durante la detenzione abbia avviato un serio percorso rieducativo, che abbia studiato arrivando a laurearsi, partecipato a diversi progetti e sempre tenuto una buona condotta. Mi risulta inoltre che abbia un lavoro fuori dal carcere. È quindi in possesso di tutti i requisiti, oggettivi e soggettivi, che gli hanno permesso di accedere alla misura alternativa dell’affidamento in prova ai servizi sociali, che implica la scarcerazione. Per queste ragioni, se continuerà a mantenere un comportamento integerrimo, potrà finire di scontare la sua pena fuori dalle mura del carcere. Questa è la legge, che appare coerente con la funzione rieducativa del reo che la Costituzione attribuisce alla pena detentiva».

«Quel che invece mi piacerebbe esistesse nel nostro ordinamento, e invece purtroppo manca – aggiunge -, è un meccanismo che permetta una maggiore partecipazione delle vittime del reato, o dei loro familiari, nel percorso che porta alla liberazione anticipata del condannato». Dopo definisce “parole” o “libertà sulla parola”, negli Usa avviene a seguito di una vera e propria udienza, in cui il condannato deve dimostrare ad un’apposita commissione di meritare il rilascio manifestando pentimento e consapevolezza dell’errore commesso e dimostrando così di aver intrapreso un vero percorso di riabilitazione. In questa udienza hanno diritto di parola anche le vittime del reato o i loro congiunti. La loro opinione non è ovviamente vincolante, ma è tenuta in grande considerazione da chi dovrà decidere sulla liberazione del condannato». «Io – aggiunge – trovo che questo sistema sia molto corretto, perché consente alla vittima di non sentirsi del tutto ignorata dalla giustizia in una fase così delicata, dimostrando come i diritti della parte lesa siano tenuti in considerazione anche al di là del processo».

Un confronto tra vittima e carnefice, confronto che nel nostro ordinamento è del tutto ignorato e tutt’al più lasciato alla buona volontà delle parti. «Al contrario penso che un confronto che avvenga in una sede istituzionale possa essere utile soprattutto alle vittime, che così potranno non subire il rilascio anticipato come un qualcosa che viene dall’alto, una ennesima ferita su cui non hanno alcuna influenza, ma prendere coscienza di persona del percorso fatto dal reo del suo reale pentimento e accettare quindi con maggiore serenità il suo ritorno alla libertà. E non è detto che la vittima debba sempre e comunque opporsi al rilascio anticipato; non è raro, infatti, che la vittima, presa coscienza della reale riabilitazione del reo, dia parere positivo alla richiesta o, per lo meno, non si opponga».

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).