Lo stracco dibattito sui rapporti tra l’amministrazione della giustizia e il sistema dell’informazione continua a reggersi sul solito argomento erroneo e fuorviante: e cioè che il presunto “rilievo penale” di un certo fatto determinerebbe di per sé il diritto del cittadino di averne notizia e il dovere del giornalista di dargliela.

Questa teoria è autonomamente bacata perché non sta scritto da nessuna parte – e se fosse scritto sarebbe sbagliato – che il criterio debba essere quello, vale a dire che il “rilievo penale” apre un’autostrada di legittimazione alla pratica di mettere in pagina i fatti riguardanti un cittadino coinvolto in un’indagine. Semmai, anzi, il criterio dovrebbe essere l’opposto: perché se emerge che Tizio si mette le dita nel naso, e io pubblico la notizia, infrango soltanto il suo diritto alla riservatezza su quella non elegantissima abitudine esplorativa, mentre se spiattello le faccende di supposta illiceità per cui lo indagano interferisco, compromettendolo, con il suo diritto di vedere discusse nel processo, non altrove, quelle faccende.

Nel processo, si badi bene: e cioè nella sede in cui, sia pure in abbozzo, c’è il noioso diritto di difesa che sui giornali trova curiosamente meno spazio rispetto agli ettari editoriali invece dedicati alla propalazione della voce d’accusa. Ma la teoria del “rilievo penale” è poi bacata perché quello, il “rilievo penale”, finisce per coincidere con qualunque bufala, qualunque fantasia romanzesca, qualunque vociferazione, qualunque prodotto di mattinale che si incarti in un provvedimento di indagine o dell’accusa.

Le intercettazioni, i messaggini, le chat che puntualmente fanno l’ossatura narrativa di ordinanze e decreti per il resto disastrosamente vacui, finiscono sui giornali proprio sulla scorta di quella finzione, il “rilievo penale” che un fatto assumerebbe giusto perché è scritto su carta giudiziaria, la quale perlopiù ricicla e trasfigura in verbo inquirente le attività investigative del personale mandato a far strascico sui fondali che il pubblico ministero presume ricchi di delitto. Non basta.

Il giornalismo che si intesta – spesso su istigazione della giustizia militante che ne reclama l’attivismo – il diritto/dovere di fare lo scrutinio morale dei privilegiati e dei potenti, o in ogni caso di quelli che rivestono cariche pubbliche, eserciterebbe in modo più che legittimo la propria funzione se non si lasciasse andare a quel plateale malcostume contraffattorio, e cioè pescare dalle indagini e dagli atti giudiziari qualsiasi notizia potenzialmente denigratoria con la giustificazione che “lo dicono i pm”.

Che non è fare le pulci alla moralità dell’indagato, ma è far leva su quella fonte di presunta certificazione per dare dignità alla requisitoria giornalistica spacciata per neutro riporto del fatto giudiziario. L’argomento secondo cui i giudici fanno i giudici e i giornalisti fanno i giornalisti sarebbe potabile se non fosse contaminato da quell’evidentissima e impurezza, e cioè il fatto che la promanazione giudiziaria è adoperata maliziosamente in faccia al lettore: il quale non la percepisce affatto come una parte di verità o come una verità di parte, ma come un autorevole sigillo di verosimiglianza.

Queste banalità sono risapute da tutti, dai magistrati che non si preoccupano dell’andazzo e dai giornali che se ne giovano. Su quanto possa venirne di buono per le vittime di questo bel sistema, nonché per i cittadini in favore dei quali si pretende che sia tenuto in funzione, a nutrimento del loro diritto “di sapere”, è davvero inutile intrattenersi.