Lo stop all’abuso d’ufficio e la stretta sulle intercettazioni promossi dal governo riaprono il dibattito sulle riforme liberali della giustizia. Il vicepremier Antonio Tajani ha dedicato il pacchetto di misure alla memoria di Silvio Berlusconi. Si riapre così un’annosa domanda: la promessa della “rivoluzione liberale”, con cui il Cav esordì sul palcoscenico della politica, è stata mantenuta?

In realtà, il liberalismo di Berlusconi non è mai stato pensiero né progetto, bensì vita e azione. Facile trovare i segni dell’innovazione liberale nei successi dell’imprenditore più che nell’opera dell’uomo di governo. A lui si deve una delle più profonde svolte liberali della storia d’Italia: la rottura del monopolio pubblico sull’informazione, con l’apertura della concorrenza laddove esistevano soltanto i tg controllati dai partiti. La stessa innovazione che porta nello sport, quando con il Milan supera schemi consolidati e internazionalizza il calcio italiano. Così, nel 1994, il Cavaliere ha titoli sufficienti per collegare la sua “discesa in campo” in politica alla promessa di una “rivoluzione liberale”.

Berlusconi plana sulle macerie della “prima” Repubblica con un linguaggio seduttivo, coinvolgente, moderno. Non c’è ideologia alla base di questa epifania, bensì vitalismo ed energia propri di una società civile che conquista il suo spazio, in un paese dominato da riti politici distanti e inaccessibili e da un intervento pubblico omnipervasivo, gestito per decenni dal consociativismo dei partiti tradizionali. Berlusconi rifiuta il dirigismo statale, i lacci e laccioli dell’amministrazione, il fisco oppressivo, la spesa pubblica indiscriminata. Raccogliendo con almeno dieci anni di ritardo il messaggio di trasformazione del liberismo anglosassone di Ronald Reagan e Margaret Tatcher, il Cav riabilita quell’idea liberale che in Italia non ha mai attecchito per via dell’eredità storica di culture politiche tradizionalmente illiberali: la fascista, la comunista e la cattolica. Con lui, il termine “liberale” torna ad essere positivo. Perfino il centrosinistra è costretto a modernizzarsi e a inseguirlo sullo stesso terreno, facendo tesoro della lezione anglosassone di Clinton e Blair.

Viceversa, il Berlusconi di governo rinnega i suoi esordi. Diversi anni a Palazzo Chigi trascorrono senza una seria riforma liberale del fisco, della scuola, delle pensioni, della giustizia, della Pa. I governi di centrodestra mettono il loro carico su una spesa pubblica scriteriata e corporativa. La lettera che nel 2011 la Bce recapita a Silvio Berlusconi, allora premier riluttante, chiede all’Italia un vero e proprio programma liberale di governo per “accrescere il potenziale di crescita”, “assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche” e migliorare il rendimento delle amministrazioni: liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali, contrattazione salariale al livello d’impresa, norme sul licenziamento e politiche attive per il lavoro, tagli di spesa pubblica, uso di indicatori di performance nei sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione. Sappiamo com’è finita. Per evitare il definitivo tracollo dell’economia nazionale, Berlusconi è costretto a dimettersi, chiudendo un ciclo di governo nefasto. Ha tradito la sua promessa di rivoluzione liberale, consegnando il paese a stagnazione e declino di cui ancora soffriamo gli effetti.

C’è qualcuno in grado di raccogliere oggi quella speranza di liberalismo ancora così attuale? Sarebbe già tanto se la destra italiana al governo riuscisse a far evolvere le sue radici populiste e sovraniste in una prospettiva nazional-conservatrice di impronta europea. Ma è difficile immaginare che da quel mondo nutrito di statalismo e corporativismo possa emergere una proposta limpidamente liberale. Le stesse perplessità valgono per l’attuale Pd, preda di una confusa deriva socialpopulista corbyniana che non ha nulla in comune con il Manifesto del Lingotto né con una visione liberalprogressista del futuro del paese. In questo sentiero stretto per i riformisti – ovunque siano collocati – c’è ancora parecchio lavoro da fare.

Vittorio Ferla

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