La visita di Ahmed al Sharaa alla Casa Bianca è andata come previsto. L’autoproclamato presidente siriano ha confermato l’ingresso di Damasco nella Coalizione anti-Isis guidata dagli Stati Uniti. Ha detto che non è il momento di discutere in via diretta con Israele per entrare negli Accordi di Abramo ma ha comunque aperto le porte a un futuro patto di sicurezza con lo Stato ebraico.

Sharaa, al termine dell’incontro con The Donald, ha sottolineato che la Siria considera Washington un “alleato geopolitico”. E il presidente degli Stati Uniti, dal canto suo, ha annunciato la sospensione delle sanzioni a Damasco per i prossimi mesi e ha fatto capire di volere dare ancora credito al nuovo regime. “Vogliamo vedere la Siria diventare un Paese di grande successo, e credo che questo leader lo possa fare”, ha detto Trump. Mentre l’ex Abu Muhammad al Jolani, un tempo membro di al Qaeda e su cui pendeva fino a poco tempo fa una taglia di milioni di dollari come leader del gruppo Hayat Tahrir Al-Sham, ha evitato le domande sul suo passato dicendo che alla Casa Bianca si è parlato del futuro.

Un futuro, però, fatto non solo da rapporti bilaterali. Perché ieri, mentre alla Casa Bianca Sharaa entrava da una porta secondaria, senza il favore delle telecamere, nello Studio Ovale c’era anche un altro ospite: il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan. Il capo della diplomazia di Ankara si è unito a una parte dei colloqui tra i due leader, ha precisato. Sempre Fidan, ha incontrato il suo omologo Usa, il segretario di Stato Marco Rubio. E il blitz americano del ministro, che ha incontrato poi anche Sharaa insieme al capo della diplomazia siriana, Asaad al Shibani, ha confermato ancora una volta il ruolo di Recep Tayyip Erdoğan nel presente e nel futuro di Damasco. Un leader che ha saputo aspettare il momento opportuno per sferrare il colpo del ko ad Assad e allo stesso tempo inserirsi nel grande gioco di questa ampia crisi di tutto il Medio Oriente. Un ruolo fondamentale, quello di Ankara, che dopo il rovesciamento di Bashar al Assad da parte dell’ex capo dei ribelli di Idlib, ha assunto un peso decisivo.

Tolto di mezzo l’Iran con la Russia, che ha dovuto abbandonare le sue basi (in attesa di capire il destino definitivo dei suoi avamposti più pregiati sul Mediterraneo), Erdoğan è il vero “dominus” della Siria. Gli Stati Uniti, che hanno la Turchia sotto l’ombrello della Nato, si sentono garantiti da questa mossa, complice anche l’ottimo rapporto personale tra il “Sultano” e il tycoon. Il Pentagono pensa addirittura a una nuova base nel sud della Siria e starebbe anche lavorando a un centro in Israele per ospitare migliaia di soldati (da realizzare in teoria per l’eventuale forza di stabilizzazione della Striscia di Gaza).

Ma se questo rafforzamento della presenza militare Usa garantisce lo Stato ebraico, dall’altro lato il premier Benjamin Netanyahu continua a non fidarsi troppo di quanto sta avvenendo ai suoi confini. I drusi, alleati di Israele, non sono ancora del tutto al sicuro. Le fazioni islamiste non sono state ancora realmente assorbite nei ranghi del nuovo esercito e vengono viste come una minaccia. La sfera d’influenza turca è ormai sempre più netta e questo, per gli strateghi israeliani, inizia a essere percepito come un problema. A Gaza, lo Stato ebraico ha già chiarito di non volere l’esercito di Ankara (che ieri ha pianto diversi commilitoni morti nello schianto di un C-130 al confine tra Georgia e Azerbaigian). Ma il peso della Turchia è cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi mesi, come dimostrato anche dall’inserimento di Erdoğan tra i mediatori del cessate il fuoco con Hamas dopo che per mesi era stata una diarchia di Egitto e Qatar.

Secondo alcuni osservatori, proprio Ankara sarebbe stato decisiva nel convincere Hamas a restituire a Israele la salma di Harad Goldin dopo 11 anni di ricatti. C’è chi dice che questa mossa abbia ammorbidito il governo di Israele, che comunque non accetta l’ipotesi di un contingente turco a Gaza, forse anche vicino ai duemila uomini. E questo attivismo turco, per Netanyahu, non è un problema secondario. Nella logica strategica israeliana, Iran e Turchia rappresentano da sempre le potenze più forti nel panorama mediorientale. La partita tra forze non arabe è un elemento centrale di tutto il mosaico regionale. Ma ora Trump sembra volere dare sempre più libertà di movimento a Erdoğan.