Il governo libanese ha compiuto ieri un passo storico approvando, nel corso di una riunione di quattro ore ad alta tensione, una proposta sostenuta dagli Stati Uniti per lo smantellamento dell’arsenale di Hezbollah. La decisione, riportata da France 24, ha provocato l’immediato abbandono dell’aula da parte di quattro ministri sciiti — tre dei quali legati direttamente a Hezbollah o al movimento alleato Amal — e ha segnato una sfida senza precedenti all’organizzazione filo-iraniana.

Il piano approvato prevede undici obiettivi, fra cui il mantenimento del cessate il fuoco con Israele e la graduale eliminazione di tutte le forze armate non governative dal territorio libanese, inclusa Hezbollah, che è la principale di queste. L’esecutivo ha fissato la scadenza per il completamento del disarmo alla fine del 2025, in linea con l’Accordo di cessazione delle ostilità firmato a novembre 2024. Tale accordo stabilisce che le armi possano essere detenute solo da sei agenzie militari e di sicurezza, ponendo fine alla gestione indipendente dell’arsenale da parte di Hezbollah. Il piano prevede il dispiegamento delle Forze Armate Libanesi nelle aree di confine e il ritiro delle truppe israeliane da cinque località ancora occupate nel sud del Paese. Entro fine agosto, l’esercito dovrà presentare la strategia per la limitazione e il sequestro delle armi, passaggio indispensabile per l’attuazione del piano.

Si tratta della più importante sfida governativa alla capacità militare di Hezbollah dalla sua nascita negli anni ’80. Una mossa che merita di essere salutata con favore: se attuata, restituirebbe allo Stato libanese il monopolio legittimo della forza, ponendo le basi per una normalizzazione politica e per un’uscita definitiva dal ciclo di guerre e tensioni che ha segnato la storia recente del Paese dei cedri, portandolo dalla “Svizzera del medio Oriente” ad un fragile mosaico settario sull’orlo del collasso, come è diventato oggi. Tuttavia, il rischio di una reazione violenta è concreto. Hezbollah ha già definito la decisione “inesistente” e ha invitato il governo a “correggere la situazione” accusandolo di aver ceduto a richieste americane “a beneficio del nemico sionista”. Manifestazioni di protesta sono esplose nei sobborghi meridionali di Beirut e in altre aree a forte presenza sciita, mentre l’esercito ha dovuto dispiegare truppe per garantire l’ordine pubblico.

La storia libanese insegna che la frattura settaria può degenerare rapidamente in conflitto aperto. Un eventuale braccio di ferro tra Hezbollah e le forze armate regolari rischierebbe di far precipitare il Paese in una nuova guerra civile, a distanza di oltre trent’anni dagli anni bui del 1975-1990. Non solo si metterebbe a repentaglio il fragile processo di stabilizzazione seguito alla recente guerra tra Israele e Hezbollah, ma si riaprirebbe una stagione di instabilità che potrebbe riportare il Libano indietro di decenni. Il governo libanese ha scelto una strada coraggiosa e necessaria, ma percorrerla fino in fondo richiederà fermezza, coesione interna e soprattutto sostegno internazionale, con i fatti e non solo con le parole. Senza questi elementi, il rischio è che il disarmo di Hezbollah, invece di segnare la rinascita del Libano, diventi la scintilla di un nuovo conflitto fratricida.

Paolo Crucianelli

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