Cittadini taxpayers
Superbonus Conte 2, un fallimento a carico dei contribuenti
Era e resta uno strumento scorretto, sghembo e improprio per ottenere l’effetto di una riduzione del carico fiscale, per di più contribuendo a innalzare il tasso di inflazione complessivo che ci attanaglia
Se in ambito geopolitico il governo Conte 2 ha raggiunto il punto più basso -in una serie non indifferente di punti bassi lungo il suo frastagliato percorso- nell’avere ospitato una dubbia delegazione sanitaria russa durante la prima ondata della pandemia, nell’ambito economico e della finanza pubblica il suo punto più basso è senza ombra di dubbio il cosiddetto superbonus edilizio, per una serie di motivi, ma soprattutto per uno principale, di cui voglio discutere qui.
Tale grave motivo è presto detto: era ed è palesemente insensato (non serve essere Luigi Einaudi né Francesco Forte per scriverlo) rimborsare al soggetto che effettua le spese di ristrutturazione coperte dal superbonus stesso una percentuale del CENTODIECI per cento, ovvero instaurare un meccanismo di sussidio ipergeneroso, tale per cui per ogni 100 euro teoricamente spesi lo stato, cioè noi pagatori di tasse, rimborsa 110 euro. Rammento il fatto che alla fine della fiera siamo noi contribuenti -per dare meglio l’idea sul calco dell’inglese taxpayer: noi “pagatori di tasse”- a pagare il conto finale di questo e altri bonus, dal momento che in termini reali le risorse che finanziano tale sussidio provengono dal prelievo di una parte del reddito di cittadini e imprese tramite imposte e/o da una riduzione di altre spese pubbliche.
Lungi da me essere contrario all’efficientamento e alla riduzione delle pubbliche spese che sono poco utili o per nulla utili, al fine di finanziare una riduzione credibile e permanente delle imposte che gravano sull’economia privata, ma qui stiamo parlando di finanziare un super-sussidio estremamente costoso che -per come è congegnato- essenzialmente toglie al cittadino che effettua la spesa edilizia ogni voglia di controllare quanto sia conveniente o esoso il prezzo da pagarsi all’impresa che esegue i lavori.
Banalmente, se paga qualcun altro, anzi quel qualcun altro paga un 10% in più di quello che avremmo pagato noi, per quale beata ragione il cittadino beneficiato dal sussidio dovrebbe preoccuparsi di controllare l’esosità del prezzo richiesto? Quindi, anche qualora il cittadino decida di ricevere il bonus sotto forma di detrazioni dalle sue imposte sul reddito negli anni successivi, resta il fatto iniziale che il decisore, cioè il cittadino stesso, è diverso dall’integrale pagatore, cioè lo stato, a sua volta finanziato dalla totalità dei pagatori di tasse (all’interno dei quali ovviamente militano anche i cittadini che non hanno beneficiato di alcun bonus o superbonus).
Dall’altro lato, la modalità tipica di corresponsione del superbonus consiste(va) nel cosiddetto “sconto in fattura”, ovvero il cittadino pagava di meno (o nulla) il costruttore o il fornitore di materiale edilizio, in quanto erano questi ultimi a vedersi trasferito il bonus e dunque poterlo detrarre dalle proprie imposte.
Ciò ovviamente costituisce l’aspetto meno terribile del superbonus, in quanto consente a cittadini con poca liquidità di ristrutturare la propria casa, facendosi sostanzialmente finanziare dall’impresa di costruzioni, anche se con tassi di sconto piuttosto elevati. E chi finanzia le imprese di costruzioni che finanziano i cittadini che sono attivati nelle loro spese di ristrutturazione dal superbonus deciso dal governo Conte 2? (no, non è una canzone di un Branduardi contabilmente ardito) Sono le banche e gli istituti di credito che possono farsi trasferire il bonus fiscale dalle imprese di costruzioni, che non raramente sono poco liquide e poco fiduciose nella loro capacità di produrre redditi negli anni fiscali futuri, così da voler detrarre direttamente il bonus dalla propria IRES (imposta sul reddito delle società).
Se i governi successivi, e soprattutto il governo Meloni più che il governo Draghi, vogliono giustamente ridurre il peso pluriennale del superbonus sui conti pubblici (105 miliardi euro il costo totale, seguendo una dichiarazione del presidente del consiglio risalente allo scorso febbraio), il problema transitorio ma per nulla minimale consiste nella gestione dell’affidamento di cittadini e imprese che rimarrebbero “con il cerino in mano” nel momento in cui il superbonus venga ridotto e/o -anche per evitare frodi di importo ingente- venga limitata di molto la possibilità di cedere il credito.
Intendiamoci: da tempo immemore ritengo che la tassazione del settore immobiliare sia eccessiva, largamente a motivo della patrimoniale ordinaria chiamata IMU che fu introdotta a fine 2011 dal governo Monti sostituendo la ben più contenuta ICI, ma il superbonus era e resta uno strumento scorretto, sghembo e improprio per ottenere l’effetto di una riduzione di tale carico fiscale, banalmente perché lo si ottiene soltanto effettuando dei lavori di ristrutturazione, e per di più contribuendo a innalzare il tasso di inflazione complessivo che ci attanaglia. E soltanto un pazzo disinformato potrebbe ritenere che l’inflazione italiana dipenda soltanto dalla goffa e folle idea di un superbonus al 110%, ma similmente folle sarebbe credere che non abbia alcun effetto sul livello dei prezzi. Tornando alle questioni di finanza pubblica da cui sono partito, non è necessario essere Luigi Einaudi o Francesco Forte -con buona pace del PD, del MoVimento 5 Stelle, della parte tassaiola dei centristi e delle imprese edilizie sottofinanziate- per concludere che il modo giusto per ridurre la patrimoniale IMU su tutto ciò che non è prima casa consiste banalmente nell’abbassare le aliquote IMU.
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