«Le terribili sofferenze causate alle popolazioni civili dalla guerra in Tigray sono una macchia indelebile per le coscienze». Eccola, una delle guerre dimenticate: in Etiopia. Forse la più cruenta. “Tigray – La guerra invisibile” (Luiss University Press) è un dettagliatissimo e impressionante libro scritto da Giuseppe Mistretta, che è stato ambasciatore in quel Paese africano dal 2014 al 2017. La situazione è definibile come una “policrisi”, cioè un mix di diverse crisi: discredito politico interno, indebitamento estero, difficoltà economiche, opposizioni armate, siccità, carestia, flussi di sfollati e rifugiati e via dicendo.

In questi anni c’è stata «una carneficina di proporzioni colossali, con oltre seicentomila morti nell’arco di due anni; cioè, finora, oltre dieci volte le vittime nella Striscia di Gaza dopo l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023». Eppure il mondo non lo sa, o quasi. Anzi, diciamo meglio, la politica mondiale se ne disinteressa: «Una macchia indelebile che non riguarda solo chi ha commesso i crimini descritti in questo testo, cioè politici e militari in Etiopia, ma anche le varie personalità internazionali (diplomatici, autorità, osservatori, negoziatori eccetera) che si sono mostrate accondiscendenti o indulgenti di fronte alle tragedie in corso. In realtà – precisa l’ambasciatore – spesso non si è trattato di semplice accondiscendenza, ignoranza o indulgenza; quanto piuttosto di un calcolo opportunistico, volto a privilegiare il permanere di posizioni di vantaggio, principalmente economico, dei propri Paesi in Etiopia».

Mistretta ricostruisce tutta la vicenda nei dettagli. In estrema sintesi, l’Etiopia è un Paese in cui convivono Stati confederati, proiezione delle varie etnie: sempre sull’orlo di conflitti. Il che non ha impedito che per molti anni il Paese africano piano piano crescesse. Tutto è precipitato con la leadership di quello che era parso all’inizio un uomo nuovo, un saggio riformatore, Abiy Ahmed, che «divenne l’uomo del destino» e al quale addirittura «nell’ottobre del 2019 venne conferito il Premio Nobel per “i suoi sforzi volti a raggiungere la pace e la cooperazione internazionale, e in particolare per la sua decisiva iniziativa di risolvere la guerra di confine con la vicina Eritrea”». Però a quel punto «Tigray e i suoi esponenti politici costituivano di fatto un ostacolo per l’agenda riformista del premier e per la sua visione di riportare l’Etiopia al centro dell’attenzione internazionale, secondo il suo motto “Making Ethiopia Great Again”» (vi dice qualcosa questo slogan?).

L’urto, diciamo così, tra il centralismo, anche militare, di Abiy e i federalisti di Tigray ha portato alla carneficina. L’Italia, per evidenti ragioni storiche, anche in questi anni, compresi questi del governo Meloni, ha intrattenuto rapporti con l’Etiopia. Forse però, oltre le visite di cortesia, è mancata un’iniziativa politica tesa a ristabilire il ritorno a una – per quanto relativa – normalità. Così l’ambasciatore Mistretta: «Il nostro Paese avrebbe forse potuto porsi come latore di un richiamo più convinto e diretto col governo etiopico per il rispetto del diritto internazionale, delle norme umanitarie, per una reale ricerca dei responsabili delle atrocità commesse, per una limitazione del ricorso ai droni da bombardamento sulle popolazioni civili, e senza il timore di avviare in parallelo anche un dialogo politico altrettanto sincero e diretto con i rappresentanti tigrini, con cui avevamo intrattenuto intensi rapporti quando essi, pochi anni prima, erano al governo ad Addis Abeba». È una critica garbata ma severa. Qualcuno l’ascolterà?