La sfida del disarmo di Hezbollah, le contraddizioni tra miseria e lusso, la fragile speranza di un futuro diverso. Un imprenditore italo-libanese, che vive e lavora a Beirut, ci porta dentro la vita quotidiana del Paese dei cedri. Offre uno sguardo dall’interno, intenso e diretto, che racconta il Libano come pochi riescono a farlo. Ma lo fa restando in anonimato, a causa delle reiterate minacce ricevute da Hamas e da ambienti sciiti per le sue posizioni espresse in pubblico.

Come descriverebbe oggi l’atmosfera quotidiana a Beirut, nelle strade, nei luoghi di lavoro e nei rapporti tra le persone?
«Sebbene il Libano sia piccolo, non esiste un solo Libano ma tanti “Libani”. Ogni libanese vive nel proprio mondo. In alcune zone c’è povertà assoluta: si lotta per il cibo, le case crollano, la speranza è lontana. In altre, tra palazzi scintillanti e ristoranti pieni, la vita pulsa e la notte non finisce mai. In mezzo, la vecchia classe media soffre in silenzio, pensando a ciò che ha perso. La dignità quotidiana si mescola alla nostalgia, generando una tensione silenziosa. È sorprendente come i libanesi si adattino, trasformando la quotidianità in resilienza».

Lei vive e lavora in un contesto non sciita: come viene percepita, nel suo ambiente, la decisione del governo di avviare il processo di disarmo di Hezbollah?
«Nel mio ambiente di lavoro, così come tra amici, molti sciiti si sono dichiarati contrari a Hezbollah, soprattutto dopo l’ultima guerra, arrivando a sperare in un trattato di pace con Israele. Altri restano contrari al disarmo, dicendo che “il sangue dei martiri non si asciugherà mai”. La decisione del governo di disarmare Hezbollah entro l’anno è accolta con prudenza, ma anche con una scintilla di speranza. Molti la vedono come un passo necessario per costruire uno Stato vero, restituendo alle istituzioni il monopolio delle armi».

Ci sono timori concreti che questa mossa possa generare tensioni interne o addirittura scontri armati tra milizie e forze governative?
«Sì, i timori esistono e non si possono ignorare. Ma molte paure sono alimentate da una campagna mediatica orchestrata da Hezbollah, maestri in questo. Con messaggi e simboli, fanno credere che il disarmo porterebbe a scontri o guerra civile. Molti contrari al disarmo non lo sono per ideologia, ma per paura: del caos, del peggio, di un conflitto tra milizia e Stato. La popolazione vive sospesa tra ansia e speranza che il Paese trovi una via verso la pace».

Qual è, secondo lei, il sentimento della popolazione cristiana, o comunque musulmana moderata, di Beirut verso Hezbollah e il suo ruolo nella politica e nella sicurezza del Paese?
«Hezbollah non è un partito locale, ma un’organizzazione transnazionale che segue la dottrina del Wilayat al-Faqih e punta all’islamizzazione del Libano e del mondo. Obbedisce all’Iran, suo sponsor politico, ideologico e militare. Fin dall’infanzia, i seguaci ricevono un’educazione gratuita ma fortemente indottrinata, che li prepara al martirio. Hezbollah ha creato uno Stato nello Stato: offre sanità, lavoro, credito senza interessi e stipendi regolari, garantendo una dipendenza economica strutturata, soprattutto nelle aree dimenticate dallo Stato. Per molti sciiti è l’unico sistema funzionante. Per la maggioranza non sciita, Hezbollah è visto come un traditore al servizio dell’Iran. È noto per traffico di Captagon, riciclaggio, bancarotta pilotata del sistema bancario e l’esplosione al porto di Beirut, su cui continua a ostacolare le indagini. In Libano, lo Stato non combatteva la mafia: era la mafia. La legge era quella del più forte, e il più forte era armato e protetto da Hezbollah. Ma una via per indebolirlo esiste: chiudere i finanziamenti. Senza soldi, il sistema comincia a crollare, e con esso il mito, la paura e il silenzio».

Il piano di disarmo prevede anche il ritiro delle forze israeliane da alcune aree nel sud del Libano: come viene vista questa condizione? E c’è fiducia che Israele rispetterà l’accordo? O, al contrario, c’è il timore che l’allontanamento di Israele possa dare spunto a Hezbollah per riprendere forza?
«Fa parte della propaganda ben collaudata di Hezbollah il presentarsi come unico baluardo contro Israele e Daesh. Ma si omette che i cinque punti del Sud Libano oggi occupati da Israele lo sono diventati a seguito delle provocazioni deliberate di Hezbollah dopo il 7 ottobre. Va però riconosciuto che in Israele esiste una frangia ideologica, seppur minoritaria, favorevole al progetto del “Grande Israele” con confini fino all’Eufrate. Pur non essendo linea ufficiale, questa visione estrema offre a Hezbollah un potente argomento simbolico per legittimarsi agli occhi di parte dell’opinione pubblica».

Dopo la guerra tra Israele ed Hezbollah del 2024, quali cambiamenti concreti ha notato nella vita di tutti i giorni? Ci sono stati miglioramenti o peggioramenti nella sicurezza e nell’economia?
«Le lingue si sono sciolte. La popolazione, nel complesso, appare sollevata. Condanna le violenze a Gaza, ma molti giubilano, vedendo nella guerra di Israele contro Hezbollah un “favore” reso al Libano. Sempre più diffusa è l’idea che quella guerra, dura e drammatica, fosse una tappa inevitabile per poter vincere davvero contro Hezbollah. Per la prima volta da anni, si respira ottimismo: si parla di economia, ripartenza, investimenti. Il 2026 viene visto come un anno di svolta. È come se il futuro avesse fatto capolino e la gente avesse ritrovato il coraggio di crederci».

Come imprenditore, quali sono oggi le principali difficoltà per fare business a Beirut? L’instabilità politica pesa sulle attività economiche?
«Le difficoltà in Libano sono infinite: incertezza politica, infrastrutture inaffidabili, accesso al credito quasi impossibile. L’instabilità blocca gli investimenti e impedisce ogni pianificazione a medio termine. Eppure, i libanesi hanno una resilienza straordinaria, quasi miracolosa. Pensate: forse è l’unico Paese al mondo senza elettricità continua. La compagnia nazionale fornisce poche ore al giorno, il resto è affidato a una rete parallela di generatori privati, rumorosi, costosi e inquinanti. E chi li controlla? Hezbollah. Proprio come il mercato delle cisterne d’acqua, pur in un Paese ricco di risorse idriche. È un’economia parallela, costruita sulla debolezza dello Stato e sulla rassegnazione del popolo. Una gabbia invisibile, ma potentissima».

La comunità internazionale, e in particolare gli Stati Uniti, ha sostenuto questo piano di disarmo. Come è percepito questo intervento esterno dalla gente comune?
«Hezbollah non combatte solo con armi convenzionali, ma anche con un potente esercito elettronico, attivissimo sui media in più lingue. Nei media francesi, ad esempio, compaiono spesso voci francofone africane, apparentemente neutrali ma in realtà parte di una struttura ben coordinata e ideologicamente allineata. Molti sono volontari, ma la loro azione è pianificata e disciplinata. Così Hezbollah diffonde narrazioni martellanti, presentando ogni iniziativa occidentale in Libano come un’ingerenza del “Grande Satana”, gli Stati Uniti. E omette un dettaglio essenziale: Hezbollah stesso riceve armi, fondi e ordini da Teheran, per scopi che servono solo l’agenda iraniana, non il popolo libanese».

Lei pensa che il Libano abbia ancora la possibilità di tornare ad essere, come veniva definito in passato, «la Svizzera del Medio Oriente», oppure quel tempo è definitivamente finito?
«Il Libano ha potenzialità straordinarie: posizione strategica, capitale umano di valore e cultura imprenditoriale viva. Ma ricostruire oggi uno Stato forte? No. Cinquant’anni di guerra non hanno distrutto solo infrastrutture, ma anche scuola, società e mente collettiva, lasciando cicatrici spesso irrimediabili. Forse l’unica via è una scissione netta: dividere il Paese per permettere almeno a una parte di ripartire, liberandosi dal sistema che soffoca tutto il Libano».

Se dovesse mandare un messaggio ai lettori italiani su ciò che il popolo libanese desidera davvero in questo momento, quale sarebbe?
«La guerra del 1975 non scoppiò all’improvviso: fu preparata per anni da potenze esterne. Il Libano era un terreno fertile, sì, ma senza spinte esterne, i libanesi non ci sarebbero caduti. Oggi è lo stesso: il futuro del Paese dipende dagli interessi degli altri. Solo se questi interessi svaniranno, forse il Libano potrà rialzarsi. Ma quel giorno, oggi, non è ancora arrivato. Un messaggio? Il Libano è così martoriato che non ha più la forza di inviarlo, né la fiducia nella sua utilità».

Paolo Crucianelli

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