Negli ultimi mesi, nel dibattito pubblico occidentale – accademico, mediatico e militante – è tornata con forza l’idea che la soluzione al conflitto israelo-palestinese possa essere il superamento di Israele come Stato nazionale e la sua trasformazione in una Palestina unitaria, democratica e multi-etnica, capace di garantire uguali diritti a tutti i suoi cittadini, indipendentemente da religione, etnia, orientamento politico.

È una visione che si presenta come moralmente superiore, apparentemente progressista e rassicurante. Il problema è che non trova alcun riscontro nella realtà storica o comparata del mondo arabo. Se si guarda ai fatti, e non ai desideri, emerge un dato difficile da aggirare: non esiste oggi, né è mai esistito in epoca moderna, uno Stato a maggioranza araba che sia riuscito a combinare autogoverno democratico stabile e pieno rispetto di tutte le minoranze. Non “alcune”, non “formalmente”, ma tutte: religiose, etniche, politiche, di genere e sessuali. Questo non è un giudizio morale sugli arabi in quanto tali, ma una constatazione empirica sul funzionamento delle istituzioni statali nella regione.

Le monarchie del Golfo garantiscono stabilità e, in alcuni casi, benessere materiale, ma non sono democrazie e fondano la cittadinanza su criteri profondamente discriminatori, soprattutto verso lavoratori stranieri e minoranze religiose. Le repubbliche arabe nate dal nazionalismo novecentesco – dall’Egitto alla Siria, dall’Iraq all’Algeria – hanno prodotto regimi autoritari o militarizzati, spesso giustificati proprio in nome dell’unità nazionale e della lotta al settarismo, ma incapaci di proteggere le minoranze quando il potere centrale si indebolisce. Dove lo Stato crolla, come in Libia o Yemen, il risultato non è il pluralismo ma la frammentazione armata lungo linee tribali, religiose e claniche.

Il caso che più spesso viene evocato come eccezione è quello della Tunisia post-2011. Per alcuni anni è sembrata incarnare la possibilità di una democrazia araba funzionante. Ma anche qui l’esperimento è naufragato: la concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo, lo svuotamento delle istituzioni rappresentative e l’erosione delle libertà civili hanno mostrato quanto fragili fossero quelle basi. Se il “miglior caso” disponibile fallisce, il problema non è l’eccezione ma la struttura.

A questo punto è inevitabile porsi una domanda scomoda: su cosa si fonda l’idea che una Palestina a maggioranza araba, nata dalla dissoluzione di Israele, dovrebbe improvvisamente produrre ciò che nessun altro Stato arabo ha mai prodotto? Non su precedenti storici, non su esempi regionali, ma su un atto di fede politica. Una fede che ignora sia l’esperienza comparata sia la realtà concreta dei territori palestinesi, segnati da autoritarismo, repressione del dissenso, persecuzione degli oppositori politici e assenza sistematica di tutele per minoranze religiose e sessuali.

C’è poi un ulteriore elemento che raramente viene affrontato con onestà: la richiesta di uno Stato “per tutti” viene avanzata quasi esclusivamente nei confronti di Israele, l’unico Stato della regione che, pur con tutte le sue contraddizioni e tensioni, garantisce pluralismo politico, libertà religiosa, una magistratura indipendente e diritti civili a minoranze che altrove non ne hanno. Chiedere a Israele di rinunciare alla propria natura statuale in nome di un ideale universalista che non si pretende da nessun altro Paese mediorientale non è progressismo: è una forma di eccezionalismo politico rovesciato.

Questo non significa negare i diritti dei palestinesi né giustificare ogni politica israeliana. Significa però riconoscere che le soluzioni politiche non possono essere costruite sul desiderio, ma sulla realtà. E la realtà ci dice che trasformare uno Stato esistente e pluralista in un’entità a maggioranza araba, senza precedenti democratici comparabili, non è un progetto di pace, ma un salto nel buio. Continuare a presentarlo come inevitabile o moralmente necessario non aiuta né israeliani né palestinesi. Serve solo a rassicurare le coscienze occidentali, mentre ignora una lezione storica elementare: la democrazia e la tutela delle minoranze non nascono per proclamazione, ma da istituzioni, cultura politica e precedenti che, nel mondo arabo statale, semplicemente non esistono.