Un concetto culturale ed economico affascinante, su cui a mio parere non riflettiamo abbastanza, è il cosiddetto “pensiero a somma zero” (zero-sum thinking), che fu proposto negli anni 60 dall’antropologo George Foster. Secondo tale concetto non è raro che gli esseri umani –nel cercare di capire come funzioni il mondo attorno a loro- ritengano che il vantaggio di qualcuno possa essere ottenuto soltanto grazie al danno arrecato a qualcun altro, senza che siano possibili esiti “intelligenti” alla Carlo Cipolla (entrambe le persone stanno meglio) oppure esiti “stupidi” (sempre secondo la terminologia di Cipolla: l’azione di uno fa stare male sia lui/lei che la controparte).

In ambito economico, questo modo di pensare porta ad esempio a credere erroneamente che valga quello che Sandro Brusco ha definito il “modello superfisso”: nel caso del mercato del lavoro, l’unico modo per far assumere una persona in più consisterebbe nel fatto che una persona in meno lavori, ad esempio andando in pensione prima. E l’evidenza empirica? Un recentissimo paper di Chinoy e coautori, basato su un sondaggio effettuato negli USA, si prefigge di misurare la rilevanza del pensiero a somma zero a livello individuale, andando a valutarne origini e conseguenze.

Chi è maggiormente orientato a pensare in somma zero è sistematicamente più favorevole alla redistribuzione e alle restrizioni sull’immigrazione (per stare meglio devo togliere risorse ai ricchi, e/o devo evitare la concorrenza degli immigrati), e non necessariamente appartiene al Partito Democratico, anche se in media i democratici pensano a somma zero in misura maggiore rispetto ai repubblicani.

D’altro canto, coloro i quali hanno sperimentato minore mobilità sociale nella propria famiglia di origine –meno frequente il caso in cui i figli diventino più ricchi dei genitori eccetera- hanno una probabilità significativamente più altra di pensare secondo la logica della somma zero, con il rischio di trasmettere questa logica ai propri figli. Realisti o remissivi?