Né Harris né Pelosi (e neanche Vance) per Bibi
A Capitol Hill tutti in fuga da Netanyahu, dem dalle famiglie degli ostaggi: “Meglio che visitare Mar-a-Lago”
Con Trump, che ha firmato gli Accordi di Abramo allo scopo di non mettere a repentaglio i rapporti di Israele con le monarchie arabe, Netanyahu ha più affinità. Mentre per quanto riguarda Biden e Harris, è chiaro che la situazione è più complicata
Quando Benjamin Netanyahu arrivò per la prima volta a Congresso degli Stati Uniti, era il 1996. Il sangue del premier Yitzakh Rabin era ancora “caldo” e Israele viveva una delle pagine più buie della sua storia recente. Dopo 28 anni, il primo ministro israeliano è tornato al Congresso per parlare di nuovo ai legislatori americani.
E la situazione, anche questa volta, sia per lo Stato ebraico che per il Medio Oriente non è delle migliori. La guerra nella Striscia di Gaza, dopo oltre nove mesi dall’orrore del 7 ottobre, continua ancora a essere il vero ago della bilancia dell’intera regione. L’opinione pubblica israeliana è divisa, frustrata. Stanca di avere i suoi ostaggi ancora nelle mani di Hamas e delle altre milizie palestinesi e di non riuscire a vedere la fine del tunnel, sia per la conclusione del conflitto sia per rispondere alle domande sul futuro della Striscia e del rapporto con i palestinesi.
Il governo Netanyahu appare spaccato, con la destra radicale che si agita. Ieri, il ministro della Sicurezza interna Itamar Ben-Gvir ha di nuovo incendiato il dibattitto confermando che la scorsa settimana ha pregato sul Monte del Tempio. “Il Monte del Tempio sta subendo cambiamenti. Capiamo tutti di cosa sto parlando”, ha affermato il leader dell’estrema destra, suscitando non poche critiche sia negli apparati di sicurezza che all’interno dell’esecutivo. Il comandante dell’Unità Luoghi Santi delle forze dell’ordine israeliane, Eyal Avraham, ha ricordato a tutti che è fatto divieto agli ebrei di pregare in quel luogo. I partiti ultraortodossi della maggioranza lo hanno accusato di avere contraddetto le disposizioni del Rabbinato. E il ministro della Difesa, Yoav Gallant, si è scagliato contro il suo collega di governo per il pericolo scaturito da quella mossa.
L’ufficio del premier si è affrettato a dire che la politica dello Stato ebraico “per mantenere lo status quo sul Monte del Tempio non è cambiata e non cambierà”. Ma il segnale che è arrivato dall’ala radicale del governo è chiaro. E non è forse un caso che sia stato inviato proprio mentre Bibi era impegnato nella complicata partita del discorso al Congresso e mentre si aspetta di incontrare Donald Trump, Kamala Harris e Joe Biden tra Mar-a-Lago e Washington. Gli Stati Uniti non hanno mai mostrato grande affinità nei riguardi delle politiche auspicate e messe in atto dalla parte più intransigente del governo israeliano. Con The Donald, Netanyahu ha di certo molte più affinità, anche se non va dimenticato che negli Accordi di Abramo voluti dallo stesso tycoon il sottinteso è quello di realizzare politiche che non mettano a repentaglio i buoni rapporti di vicinato con le monarchie arabe. Mentre per quanto riguarda Biden e Harris, è chiaro che per Netanyahu la situazione è più complicata.
Il presidente Usa ha mostrato di essere sempre un grande alleato di Israele, ma non ha mai nascosto di volere anche un netto abbassamento dei toni, di non apprezzare l’ondata oltranzista provenienti dall’ultradestra israeliana e dai coloni, e non ha mai smesso di tracciare linee rosse per evitare che il conflitto a Gaza si tramutasse in un disastro umanitario difficilmente giustificabile per la politica americana e per la sua amministrazione. Harris, invece, che pure con la comunità ebraica ha forti legami, ha mostrato posizioni anche più nette in contrasto con le mosse di Bibi e del suo governo. E la sua assenza dal Congresso è un’immagine che pesa eccome nei rapporti con Netanyahu. Specialmente perché da ormai certa candidata democratica alla Casa Bianca, non è da escludere che i due, un giorno, possano parlare non più da premier e vicepresidente, ma da primo ministro e guida del maggiore alleato di Israele. Kamala, che è anche presidente del Senato, non è l’unica esponente ad avere mancato il discorso di Netanyahu al Congresso.
Anche un altro pezzo da novanta del Partito democratico, Nancy Pelosi, ha deciso di dare forfait preferendo un incontro con le famiglie degli ostaggi. E sono stati oltre cento i parlamentari del partito di Biden, Harris e Pelosi ad avere organizzato un evento con i parenti delle persone rapite a Gaza inviando chiari messaggi di sfida al premier dello Stato ebraico. “Questi sono israeliani che sono venuti qui, non per interferire nella politica presidenziale americana o per andare a visitare Mar-a-Lago o cose del genere. Sono qui per riportare a casa gli ostaggi, ed è per questo che siamo tutti qui”, ha affermato il deputato Jamie Raskin.
E il riferimento a Netanyahu è stato cristallino. Trenta democratici, tra senatori e deputati, hanno proprio deciso di disertare l’aula in segno di protesta. Con Dick Durbin che ha annunciato la sua scelta dichiarando che la guerra a Gaza “è una strategia brutale che va oltre un livello accettabile di autodifesa. Io starò al fianco di Israele ma non applaudirò all’attuale primo ministro al Congresso”. Sul fronte repubblicano, la situazione appare molto più chiara. Già l’incontro programmato con Trump conferma le sinergie tra il leader israeliano e l’ex presidente Usa. Ma anche le parole dello speaker della Camera, il repubblicano Mike Johnson, sono state eloquenti. Parlando della decisione di Harris di non presenziare al discorso al Congresso, Johnson l’ha descritta come “irragionevole”, e ha fatto riferimento al precedente di Biden, che da vicepresidente sotto Barack Obama fece altrettanto.
Ma c’è da dire che in casa Gop anche JD Vance (vice di Trump per questa campagna elettorale) ha rinunciato a presenziare al discorso per impegni pregressi. Dagli uffici di The Donald, hanno garantito che Vance “è solidamente schierato con il popolo di Israele nella sua lotta per difendere la propria patria, sradicare la minaccia terroristica e riportare a casa i suoi cittadini tenuti in ostaggio”.
Ma anche questa è un’assenza che ha fatto storcere il naso a qualcuno. In una Capitol Hill blindata, tra proteste, arresti e boicottaggi, la partita diplomatica di Netanyahu è stata di certo una delle più difficili.
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