Abraham Yehoshua, morto ieri a Tel Aviv a ottantacinque anni, arriva al romanzo tardi, ma appena pubblica il suo primo libro, L’amante (1977), è subito evidente che la sua scrittura è gravida di novità. Basta il solo l’incipit per capire l’ampiezza di sguardo delle sue pagine e di cosa tratterà tutta la sua letteratura: “… e noi nell’ultima guerra abbiamo perso un amante”. Guerra e innamoramenti, dimensione pubblica e questioni private, tutto il suo immaginario è contenuto in quella prima manciata di parole. Nato a Gerusalemme, lettore di scrittori israeliani, russi, americani, con una menzione speciale per Toni Morrison, italiani, europei, con un debole per Kafka, i suoi due autori di riferimento sono Shmuel Yosef Agnon e William Faulkner. Tanto da considerare L’urlo e il furore di Faulkner il libro più importante del Novecento: “Senza i suoi libri non avrei potuto scrivere né Il signor Mani, né Un divorzio tardivo, né L’amante”, dirà.

Insieme ad Amos Oz – morto nel 2018 – e a David Grossman, ha reso la letteratura israeliana un faro, per capire la loro forza basterebbe osservare i frutti del loro lavoro, leggere gli scrittori considerati gli eredi, come Eshkol Nevo, attualmente tra i più importanti autori israeliani e mondiali. Yehoshua è stato capace di rinnovare la forma romanzo pur convinto che tutte le strade delle sperimentazioni fossero già state percorse. Nei suoi libri indimenticabili, L’amante (1977), Un divorzio tardivo (1982), Cinque stagioni (1987), Il signor Mani (1990), Viaggio alla fine del millennio (1997) c’è sempre un elemento di invenzione che riguarda la struttura del libro: la scomposizione del punto di vista in più voci narranti, dialoghi di cui il lettore ascolta una sola voce, romanzi senza dialoghi in cui è tutto riportato in un indiretto libero.

“La letteratura, con la sua potenza e suggestività retorica, riesce ad allargare gli orizzonti del nostro universo morale sino a limiti che non avremmo mai potuto immaginare”, scriveva Yehosua in un saggio del 2000 intitolato Il potere terribile di una piccola colpa. Universo morale, dilemmi etici, scrupoli della coscienza, ricerca della verità, rabbini che intervengono per decretare la validità di valori e la legittimità delle azioni sono presenti in tutti i romanzi di Yehoshua, sarà che da giovane voleva fare l’avvocato e i suoi personaggi si arrovellano sempre su cosa è giusto fare e cosa no. La recente storia di Israele, i conflitti, le intifade, i rapporti con gli arabi, sono sempre incarnati in personaggi e diluiti in trame che durante la lettura rivelano improvvisamente altri livelli, risvolti metaforici, piani allegorici. Non c’è stato momento politico delicato o burrascoso degli ultimi decenni in cui Yehoshua non sia intervenuto impegnandosi per risolvere il conflitto con i palestinesi, per molti anni ha sostenuto il ritiro unilaterale degli insediamenti illegali nei territori, e non si contano le volte, negli ultimi anni, in cui si è mostrato deluso e sfiancato davanti a soluzioni pacifiche sempre più lontane.

Sorridente, viaggiatore, professore di Letterature comparate all’università di Haifa (nel romanzo La sposa liberata il protagonista va a un convegno su Edward Said), figlio di un orientalista autore di dodici libri su Gerusalemme, sposato con una psicoanalista, è stato adorato in Italia anche dal mondo del cinema. Sono tutti belli i libri di Yehoshua, diceva Nanni Moretti nel film Aprile, ed è di Roberto Faenza il film girato nel 1999 L’amante perduto, tratto dal libro. In Italia i suoi libri, tutti pubblicati da Einaudi, hanno trovato l’ammirazione del pubblico e un consenso dei critici. Proprio in Italia è ambientato La figlia unica del 2021, “Yehoshua è pure un uomo innamorato dell’Italia. La considera una seconda patria”, scriveva allora Wlodek Goldkorn. Un amore quindi ricambiato.

Al centro di tutta la sua letteratura restano L’amante e Il signor Mani. Comincia a scrivere L’amante dopo la guerra del Kippur. Il libro è invaso da una luce tiepida, rarefatta, assonnata, i sogni rivelano desideri e paure, le notti insonni rivelano altrettante angosce e speranze, le donne dei libri di Yehoshua si aggirano spesso scalze e spettinate, che siano nottambuli o che dormano tanto, di notte tutti aspettano rivelazioni. L’idea dell’Amante, vagamente pirandellinana, è che qualcuno possa approfittare di una guerra per sparire. Lo compone a partire dal monologo finale, poi scrive il celebre incipit e alla fine tutta la storia così come la si legge. Mentre lavora al Signor Mani invece, dedicato alla memoria del padre (“cittadino di Gerusalemme e studioso del suo passato”), si interrompe, per scrivere Cinque stagioni. Poi fortunatamente lo riprende. Risultato: “Penso che Il signor Mani sia il mio miglior lavoro e che non riuscirò mai più a eguagliarlo”, racconterà in un’intervista a Francesca Borrelli.

Nel 1997 pubblica Viaggio alla fine del millennio, un viaggio per mare nel cuore del medioevo, da Tangeri a Parigi, in cui si deve stabilire la legittimità della bigamia: “Col passare degli anni sempre più credo che la letteratura debba affrontare in modo diretto le questioni morali” disse. Dopo questa favola diversa da tutti i libri precedenti, non tutti i nuovi romanzi saranno dei capolavori. Però le sue pagine hanno sempre contenuto una grazia e una profondità di analisi dell’essere umano assai rara. Si incontrano matrimoni rotti e matrimoni sorretti da silenzi, gelosia, suicidi, elaborazione di lutti, piccoli scandali, i protagonisti provano sentimenti oggi spesso assenti nella letteratura: pietà, vergogna, amarezza, senso di colpa e non manca mai la dimensione religiosa, spirituale, rapporti tra ebrei e cattolici, tra ebrei e musulmani, tra sefarditi e ashkenaziti. Ogni cosa nelle sue pagine appare palpitare, come se anche gli oggetti sotto al suo sguardo rivelassero un’anima. Ecco la famosa automobile, la vecchissima Morris celeste in arrivo nel garage di un personaggio dell’Amante: “Scivola lentamente nel garage senza guidatore. Senza far rumore, come un’apparizione soprannaturale”. Per anni si è parlato di un premio Nobel per Yehoshua. L’unico riconoscimento che gli manca, e gli spettava.