Dopo che il gip di Bolzano ha archiviato il caso di doping che pesava dal 2016 su Alex Schwazer, ieri faceva una certa impressione leggere i giornali. Tutti ad esaltare l’atleta, a descrivere la sua rivincita, a gioire con lui. Nessuno che abbia fatto “mea culpa”, che abbia chiesto scusa a lui e ai lettori. Eppure mai come nel caso del campione altoatesino l’informazione ha dato il peggio di sé, lanciando la pietra della gogna, tirando i sassi più violenti. Solo alcuni si sono discostati, sollevando dei dubbi, ma come spesso accade prevale la convinzione che le accuse non si discutono, che se c’è qualcuno che finisce nel mirino della giustizia non può che esserci qualcosa di vero.

Schwazer che aveva già avuto problemi di doping nel 2012 pagando un prezzo molto alto, si era risollevato. E il secondo tonfo nel 2016, per accuse ora rivelatesi ingiuste, era stato particolarmente violento. Ma anche la prima volta, pur se confermate le sue responsabilità, il clima era stato lo stesso odioso, ancora più odioso perché rivolto a una persona che aveva sbagliato. Non c’era stata nessuna pietà per chi aveva fatto un errore, nessuna indulgenza: Schwazer era l’appestato, il carnefice. Non si era tanto e solo dopato, era come se avesse ucciso, fatto una strage. Era un serial killer che andava catturato perché metteva a repentaglio la vita e la morale pubblica. La fidanzata di allora, la pattinatrice Carolina Costner, non solo ci finì in mezzo, ma per salvarsi dovette fare pubblica abiura. Lasciarlo al suo destino, perché la vox populi lo chiedeva. Di più lo pretendeva, altrimenti finiva nel fango pure lei.

In un mondo dello sport iper competitivo, in cui gli atleti sono spinti nelle braccia del doping, la doppia morale è chiara: far di tutto perché lo sport sia sempre più business, ma se si becca qualcuno con le mani in pasta, lo si fa a pezzettini. Non si mette in discussione il modello, non si fa un passo indietro, non si criticano le cifre da capogiro che girano intorno per esempio a certi sport. Si accetta che la legge del mercato imperi, pronti però a scovare chi sbaglia, in maniera tale da offrirlo al pubblico come capro espiatorio. E quale miglior capro espiatorio del giovane campione, biondo, altro bravo, che si fa trascinare dall’uso di sostanze? La seconda volta in molti hanno pensato: vedi, impossibile cambiare, impossibile rifarsi una vita. Se sei un poco di buono, resti un poco di buono. E giù a linciare di nuovo il giovane, l’atleta, l’uomo, senza dargli il beneficio del dubbio.

Ma non è solo questione di garantismo. O almeno del garantismo che si riferisce al rispetto delle regole. È il garantismo “umano”, quello che non ci fa mettere su un piedistallo per giudicare l’altro. Viene prima e dopo le accuse formali. Prima e dopo il processo. Dovrebbe venire prima e dopo le sentenze sputate sui giornali. È la possibilità di capire le ragioni dell’altro anche quando sbaglia, soprattutto quando sbaglia. La storia di Schwazer, i suoi alti e bassi, questa altalena costante di cadute e riprese, ci danno anche questa possibilità. Non solo dare valore alle sentenze e non alle accuse. Non solo mettere in discussione il ruolo della stampa. Ma anche e soprattutto ripensare la possibilità di “perdonare”, di considerare la colpa non come un marchio, ma come un errore da cui si può venire fuori. Ma se ne può venire fuori se prima non si è stati distrutti, zittiti, messi all’indice. Ce la faremo mai? Schwazer, una volta colpevole, un’altra innocente, ci dice di sì. Ce la dobbiamo fare.

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