Riuscite a immaginarvi una cosa come Casa Céline? Lo scrittore francese, che pure finì collaborazionista e autore di ripugnanti libelli antisemiti, aveva qualcosa di intrattabile e di refrattario alla destra. Nei primi romanzi difende i poveracci e i senza potere, denuncia l’idiozia e l’orrore della guerra fino a elogiare la vigliaccheria, oltre a curare gratis come medico i barboni della banlieu parigina («Un uomo è lì davanti a te e soffre; e allora tu fai qualcosa per non farlo soffrire più»). No, troppo pericoloso da maneggiare politicamente. E poi non cade mai in certa enfasi alla Ezra Pound (grande poeta, non grandissimo: la sua poesia è affetta da un sovraccarico di citazioni erudite, da provinciale americano che scopre la cultura europea). Prendiamo il famoso aforisma poundiano: «Se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale nulla lui». Una sentenza roboante e falsa. Non tiene conto di quella che Orwell chiamava la naturale “lunaticità” dell’essere umano, sempre contraddittorio, imprevedibile, a volte temerario e altre volte vigliacco. Cosa sono quelle “idee” granitiche che secondo Pound non tollerano dubbi su di sé? E poi: quante volte si è lottato – fanaticamente! – per idee che “non valevano nulla”!

Ho ritrovato casualmente le inaccostabili Bagattelle (ripubblicate da Guanda nel 1981) e un bel libro di Goerges Poulet di dialoghi con lo scrittore (Il mio amico Céline, Elliot 2015). Ripeto, il ruolo di Céline alla fine degli anni 30 è stato aberrante e le sue responsabilità politiche risultano inoppugnabili (e anche se per un ebreo denunciato alle autorità – sembra per gelosia – poi ne ha salvati tre…). Però vale la pena rileggere criticamente perfino i suoi libelli, ridimensionarne la parte dovuta a un obnubilamento paranoico (mettete al posto di “ebreo” – che è appunto il suo personale delirio – la parola “intellettuale”), anche perché i suoi due primi romanzi, Viaggio al termine della notte e Morte a credito (tradotto magnificamente da Caproni) rappresentano dei vertici della narrativa novecentesca. Il primo, che entusiasmò Trotzskj, Aragon, Sartre e la De Beauvoir, etc., univa una prosa “jazzistica” (lo swing dei tre puntini di sospensione), dissonante, colta e gergale, realistico-visionaria (la celebre petit musique) alla scelta “populista” di stare dalla parte degli sventurati e dei paria. Probabilmente l’obnubilamento ideologico nasceva dalla sua visione pessimistica della natura umana: così lurida, vigliacca e indisciplinata da richiedere un ordine ferreo! Nei dialoghi con Poulet ritroviamo lo scrittore anarchico, indocile a qualsiasi appartenenza, «individualista feroce, con un fondo malcelato di tradizionalismo e il gusto della rivolta»; Poulet, quasi alter ego (anche lui collaborazionista, processato e poi amnistiato) lo va a trovare nel 1956 a Meudon, periferia parigina, dove vive con la fedele Lucette, il vecchio pappagallo stordito e i molossi, stretto nei suoi golf malandati, «un’ombra cenciosa e vacillante», dice Massimo Raffaelli nella prefazione.

Poi ricorda il “delirio” dei pamphlet maledetti, spiega come l’equivoco sugli ebrei nasce dal fatto che allora nella sua testa erano bellicisti e lui odia la guerra (il che non lo assolve ma ci aiuta a capire). Il ritratto che fa Poulet del volto di Céline scavato, «disfatto dalla sofferenza» è come un saggio critico: «l’occhio destro, spalancato, plebeo, duro, ha qualcosa di beffardo e canzonatorio, mentre nell’occhio sinistro, socchiuso, più nobile, vive il galantuomo stravolto dal dolore, colui che ha voluto dire al prossimo suo cose utili e urgenti». Non si poteva enunciare meglio la schizofrenia umana e intellettuale di Céline, «il bambino, lo scemo del villaggio, il mostro, il brontosauro fossile». Parlando di letteratura Céline osserva che certo la verità si dice «arrangiandola, barando, se capita», però nei romanzi francesi che gli capita di leggere «tirava un’aria falsa, nel tono del racconto e nel giro delle frasi». Il suo pathos autodistruttivo per la verità me lo apparenta a un altro genio sregolato ed espressionista come Baudelaire. Il comunismo sovietico lo delude perché sostituiscono il padrone con il commissario del popolo, mentre lui è per l’uguaglianza assoluta, «l’avvocato come lo stagnino… e la signora moglie del ministro i piatti se li lava, e sua Eccellenza è lì che l’aiuta, grembiule e strofinaccio». Insomma, niente in lui che possa essere davvero spendibile da parte di una destra ipernazionalista e xenofoba.

Filippo La Porta

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