Alcuni di voi potrebbero aver sentito parlare di Savannah Glembin, mamma tiktoker con più di un milione di followers autrice di un video in cui ha avvolto il proprio figlio di due anni nel cellophane.
Il gesto ha indignato il web, oltre che portare gli assistenti sociali a prendere provvedimenti. Savannah, in lacrime, ha così spiegato che non solo stava cercando di impartire una lezione al bambino, il quale pare avesse tentato poco prima di infilare la forchetta in una presa elettrica, ma soprattutto pensava che il video fosse divertente e non avrebbe mai immaginato che qualcuno potesse effettivamente denunciarla alle autorità.
In molti hanno suggerito di prendere provvedimenti che possano tutelare tutti quei minori “protagonisti inconsapevoli” di video e foto postati dai genitori sui social, soprattutto alla luce di alcuni dati sconcertanti – Il Messaggero riporta che il 50% delle foto pubblicate diventano materiale per forum pedopornografici.
Forse, però, è opportuno prendersi un momento per chiedersi che cosa accomuni questi genitori in cerca di visualizzazioni.
Che l’appagamento derivante dai like crei dipendenza è cosa ormai risaputa, ben spiegata da note riviste e documentari. E, come in tutte le dipendenze, a prevalere è l’istinto di sopravvivenza che spinge a concentrare tutte le attenzioni e le energie sul proprio bisogno.
Prendiamo ad esempio l’assunzione di cocaina: quando subentrano i sintomi dell’astinenza, il corpo e la mente lanciano segnali di dolore praticamente impossibili da ignorare. In quei momenti, la persona è travolta dalla paura di morire. Per questo la priorità diventa, appunto, sopravvivere, e trovare al più presto quella dose che possa dare sollievo, anche a discapito della propria rete sociale, lavorativa e della propria condizione economica.
Tutte le dipendenze, per quanto diverse tra loro, sono accomunate da questa stessa paura. Tuttavia, ciò che va ad essere toccato in questo caso è il senso di inadeguatezza.
Da un punto di vista evoluzionistico, impariamo che le relazioni sono fondamentali per la nostra sopravvivenza, soprattutto quelle con le figure significative i nostri primi anni di vita, quando ci mancano gli strumenti per far fronte a noi stessi. Possiamo urlare, piangere, sporcare il pannolino, ma nulla di più. Insomma, non avere qualcuno che ci accudisce equivale alla nostra morte. Impariamo così ad interpretare i gesti e le reazioni di chi si prende cura di noi e interiorizzare un’idea di come si “dovrebbe essere” per mantenere quel legame e prevenire la solitudine.
Successivamente, in età adulta, questo concetto si estende al bisogno di riconoscimento altrui: senza le mie relazioni sociali, non sono riconosciuto e non esisto. Il rischio della solitudine diventa la mia nuova “morte”. Si va così alla ricerca dell’apprezzamento altrui, di modo da soddisfare quei requisiti del “dover essere” appresi durante la propria esperienza di vita e sentirsi al sicuro. Quel senso di sollievo, sui social, diventa esponenziale, direttamente proporzionale al numero di followers.
Anche in questo caso, come nella dipendenza da una sostanza, la priorità diventa la sopravvivenza. Savannah, come tanti altri genitori incapaci di gestire il potere dei social e prendere le distanze dai propri bisogni, non è più in grado di fare i conti con il proprio senso di inadeguatezza. L’unica cosa importante è non sentire più quell’affanno e mantenere l’attenzione dei followers viva, così da non perdere quell’apprezzamento tanto ricercato. Le azioni che compie sono tutte in funzione della sua dose: nemmeno l’arrivo degli assistenti sociali frena la necessità di registrare un video in cui spiegare la sua versione dell’accaduto.
In questo caso, il figlio di Savannah ha avuto la fortuna di avere dei followers che hanno colto la gravità della situazione e i rischi conseguenti alle inconsapevolezze della madre. Ma quanti sono i genitori che non riescono a prendere le misure con il digitale ed espongono i figli in funzione dei propri bisogni?
In tutto questo, i social consentono di denunciare tutte quelle situazioni in cui i minori vengono esposti ogni volta che subentra un’incapacità di guardare con pensiero critico alle proprie emozioni. Anche se, purtroppo, rimane il dubbio di come salvaguardarli dietro lo schermo, là dove nessuno può guardare.
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