Quella con Peppino Buondonno, responsabile Istruzione di Sinistra Italiana (parte dell’Alleanza Verdi Sinistra, Avs), è stata innanzitutto una conversazione tra docenti, tra chi ha il privilegio di poter leggere, nella loro concreta ricaduta a scuola, le politiche, i regolamenti e le tante raccomandazioni dall’alto che giungono, spesso incomprese, a quel mondo. Coinvolgiamo anche lui nel ciclo di interviste del Riformista sull’idea di scuola dei partiti, anche se il discorso sul contesto attuale ci conduce a ragionare in senso opposto, su cosa la scuola non deve essere. «La nostra idea è l’esatto contrario di una scuola che si limita ad addestrare alle competenze esecutive finalizzate al mercato del lavoro. Di fatto, nell’idea di chi governa, c’è una subalternità della scuola al mercato del lavoro capitalistico, che la piega a una finalità puramente produttivistica».

È una tendenza recente?
«Non proprio, direi che però c’è stato un balzo decisivo con il ministro Bianchi, durante il Governo Draghi, e ora, ancor più pericolosamente, con Valditara».

Perché ancor più pericolosamente ?
«Perché alla precedente matrice neo-liberista, mercantilista, con Valditara e con il peso politico di Fratelli d’Italia si è aggiunta anche una visione autoritaria. Aver deciso che chi occupa una scuola ha 5 in condotta, e poi che col 5 in condotta si boccia, significa esautorare i consigli di classe nella loro autonomia valutativa».

Pur non riducendosi a una logica produttivistica, non crede che la scuola debba comunque porsi il problema di fornire competenze legate al mondo del lavoro?
«Guardi, una delle menzogne ideologiche più gravi di questo tempo consiste nel credere che ci sia una sfasatura tra la formazione scolastica e il mercato del lavoro. Non è questo il punto. Il fatto è che il capitalismo italiano ha scelto di competere al ribasso, comprimendo il costo del lavoro e non alzando il livello della ricerca e dell’innovazione. Per questo si sta trasformando la scuola in una società interinale, con l’ossessione di orientare i ragazzi già in età scolare. Se a questo si aggiungono l’autonomia differenziata e il fatto che finanziatori privati possono entrare nell’attività didattica, appaltando ore di insegnamento a gente senza competenza didattica e pedagogica, si finisce per trasformare la scuola in un luogo di addestramento e non di formazione umana».

Quale deve essere allora il compito della scuola?
«Formare persone, esseri umani, cittadini liberi, e cioè svolgere il compito che la Costituzione le assegna, quello di emancipazione sociale e culturale. Noi crediamo che una persona entrata nel ciclo del lavoro debba rimanere un essere umano e un cittadino, non unicamente un produttore. Il lavoro è una sfera dell’esistenza, non può essere la sua totalità».

Cosa significa “formare il cittadino”?
«Significa educare a un pensiero responsabile e consapevole, complesso, capace di cogliere sfumature, l’esatto contrario dei meccanismi contemporanei del “like e del don’t like”, della visione binaria della realtà. La scuola è l’unico grande presidio per svolgere questo compito, perché è un compito che richiede dei tempi lunghi e soprattutto diversi per ciascuno. Ecco perché contestiamo questa continua celebrazione del concetto di merito, comparso perfino nell’indicazione del nome del ministero. A un ragazzo che sta cercando la propria identità, la scuola deve dare il tempo di sbagliare, non può essere una realtà selettiva, che tiene i migliori con i migliori per un mero principio di efficienza, e lascia perdere quelli che soccombono, proprio coloro che dovrebbe aiutare di più».

Rapporto scuola-famiglia. Tanti dicono che sia una delle principali degenerazioni della scuola di oggi…
«È un approccio impostato male. Quello che bisognerebbe favorire è un rapporto con le famiglie in una dimensione collettiva e non solo nell’interesse individuale del proprio figlio. Proprio questo era lo spirito dei Decreti delegati: non era soltanto sapere come va mio figlio, ma contribuire al processo formativo di un contesto più ampio».

Quali proposte concrete mettete in campo per questi obiettivi?
«Con un disegno Legge chiamato “Promossa”, presentato come Avs, abbiamo fatto alcune proposte chiare e realizzabili. Mi piace cominciare da quelle che abbiamo chiamato Zeps (Zone di educazione prioritaria e solidale), una sorta di Zes dell’educazione, con cui si vogliono favorire le zone in cui alla dispersione scolastica si somma l’indice di disagio sociale (come alcune zone montane, alcune aree del Sud, le periferie delle città). In queste zone il numero massimo di studenti per classe si abbasserebbe (per noi al massimo dovrebbero essere 18 nella normalità), ci sarebbero maggiori investimenti e un sostegno più forte agli enti locali, anche per dare opportunità culturali che non si hanno (in alcune di queste zone non ci sono cinema, teatri, biblioteche, mediateche). Proponiamo, inoltre, nidi e scuole elementari in tutti i comuni, con consorzi tra i comuni nel caso di piccole realtà; gratuità dal nido ai 18 anni (età a cui dovrebbe essere spostato l’obbligo); aumento del tempo scuola (tempo pieno in tutte le scuole primarie) e possibilità del tempo prolungato anche nella secondaria, su base volontaria. Infine, con un’altra proposta, ci stiamo spingendo affinché siano riconosciuti come operatori della scuola gli assistenti per l’autonomia, che lavorano per cooperative spesso obbligate ad accettare dai comuni affidamenti al massimo ribasso per poi garantire agli operatori dei compensi ridicoli».

Domanda di buonsenso. Chi paga tutto questo?
«Non voglio apparire un estremista, perché non lo sono per storia personale, ma su questi temi bisogna avere il coraggio di esserlo: io credo che bisognerebbe aumentare in modo molto cospicuo, se non addirittura raddoppiare, la quota del Pil investita sull’istruzione. Se il ministro Guido Crosetto chiede di accrescere la spesa militare e tenerla fuori dai Patti di Stabilità, io dico che invece bisogna farlo per il diritto alla formazione e al sapere delle prossime generazioni».