Carlo Calenda dice no al “campo largo” e sfida i partiti: “arriveremo al 20%”. A obiettivo centrato – nel giorno in cui i 300 delegati del congresso di Azione lo proclamano segretario – la promessa di lasciare la sua ‘creatura’ a chi sarà capace di conquistarne la leadership, magari una “donna competente”. E l’ex ministro non si smentisce: vietato parlargli di “grande centro”.

Il progetto di Calenda resta quello di “un’area pragmatica che possa contenere le grandi famiglie politiche europee”. L’orizzonte è “costruire il terzo polo del riformismo“, unica “alternativa possibile a populismo e sovranismo”, la stoccata che arriva dal palco del Palazzo dei Congressi di Roma. Unico interlocutore possibile, al momento, resta +Europa, con cui rafforzare una federazione che “consente di mettere in comune le cose che ci uniscono e lasciarne altre all’identità di ciascuno”, come dice Emma Bonino.

Per la senatrice l’iniziativa di oggi serve a puntellare il governo perché, in questo momento “qualsiasi crisi sarebbe un disastro”. Bonino, però, non rinuncia a qualche bacchettata, invitando l’alleato a “contare fino a dieci prima di parlare” e ad “abbassare il tasso di testosterone”, magari con una maggiore presenza di donne, a patto però che siano preparate e competenti. Calenda non ci sta: “Un terzo degli organi del partito è fatto da donne, elette perché sono delle assolute fuoriclasse”.

Tuttavia è la mano tesa del Pd a fare da padrona al congresso di Azione. Le regole d’ingaggio, per Calenda, sono chiare: “Caro Enrico, voglio stare con te, ma deve essere il Pd a venire nel nostro campo”. Per una volta, di fatto, il leader si trova sulla stessa lunghezza d’onda di Giuseppe Conte, che ieri ha bollato l’ingresso di Azione nell’alleanza riformista e progressista come una “accozzaglia”. Calenda non ha dubbi e sottoscrive, alimentando quello che in realtà è solo un fuoco di veti incrociato.

A rincarare la dose il presidente di Azione, Matteo Richetti, che chiede piuttosto un “campo chiaro”, ribadendo che “le ambiguità non sono di Azione ma di coloro che propongono alleanze per vincere e poi non sono in grado di governare”. Dal Pd l’aut aut è di difficile digestione, con Francesco Boccia che avverte: “Con i veti non si costruisce nulla”. “Noi vogliamo ripartire proprio” da una società solidale e giusta, “nel solco dei partiti progressisti europei che non pongono veti ma lavorano per allargare il campo alternativo alle destre”, è il messaggio.

Anche dal M5S si alza la voce: “Calenda, fuoriuscito dal Pd, tenta di dettare la linea al Pd di Letta sulle future alleanze e dall’alto del suo 4% tuona ‘mai con M5s’. Io invece ritengo che per costruire un’alternativa alla destra di Meloni e Salvini serva meno arroganza e più dialogo”, è l’affondo del sottosegretario all’Intero, Carlo Sibilia.

Dal palco il leader di Azione non risparmia sferzate a nessuno, neanche al suo ex segretario Matteo Renzi, definito da Calenda “il migliore presidente del Consiglio dai tempi da De Gasperi”. Nel “campo” c’è spazio anche per lui, ma “deve chiarire se vuol fare politica o vuole fare business” perché “non è pensabile che sia pagato da uno Stato straniero”. Il fendente successivo è tutto per Giorgia Meloni: “Lo sapevamo tutti che dentro FdI ci stavano i fascisti. Anche perchè se non stavano là, dove stavano?”. Inizia da qui il viaggio di Calenda verso le politiche del 2023, sempre più vicine e dall’esito incerto, sia per la legge elettorale che per ignote alleanze all’orizzonte. (Fonte:LaPresse)

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