L’andamento e le conclusioni della vicenda della Presidenza della Repubblica hanno sconvolto in modo profondo il sistema politico italiano e il sisma continua a produrre scosse telluriche. Partiamo da destra, dove questi sommovimenti sono più evidenti, anche perché a sinistra sono più bravi nell’arte della dissimulazione. Dopo la rielezione di Mattarella abbiamo assistito in televisione a un comizio della durata di 45 minuti da parte di Giorgia Meloni e poi ad una dissertazione storico sociologica dello scrittore Buttafuoco, il quale ha espresso una sorta di filosofia della storia fondata sulla invincibilità della sinistra democristiana derivante dalla forza di un “sistema” che non consente spazi democratici.

A nostro avviso le cose non stanno esattamente così. La sinistra vince se – detta brutalmente – “la destra è stupida e sbaglia tutti i colpi”. La destra – sia Salvini sia la Meloni – ha fondato tutta la sua linea sulla leggenda metropolitana che siccome il centrodestra aveva la maggioranza dei grandi elettori (453), quindi, per una sorta di automatismo, il Presidente della Repubblica avrebbe dovuto appartenere alla sua area. Le cose non stavano affatto così neanche sul piano numerico. Il centrodestra aveva la maggioranza relativa (453) che non è la maggioranza assoluta (503): c’erano più di 50 voti di distanza che, mettendo nel conto un 10 per cento di “franchi tiratori” fisiologici, rendevano la distanza dalla meta molto più rilevante: in assenza dell’intesa politica con almeno un pezzo del centrosinistra, l’operazione era impossibile.

Questa intesa parziale non si è mai manifestata anche perché Renzi, vista la linea “troglodita” seguita da Salvini, si è guardato bene dal fargli da sponda. Per di più l’unico che aveva qualche possibilità di attrarre una area significativa di consensi individuali fra grillini, post Grillini e gruppo misto era Berlusconi, qualora avesse avuto le spalle coperte da Salvini e dalla Meloni e dai relativi gruppi parlamentari. Nella realtà invece, se andiamo a rivedere il film di quei giorni (24, 25 gennaio) è evidente che Salvini e la Meloni – specie Salvini – hanno trattato con scetticismo e irrisione la candidatura di Berlusconi. Un giorno sì e un giorno no Salvini intimava a Berlusconi di dargli le cifre (facendo capire che in effetti non le aveva ) e poi ha anche detto una cosa risultata falsa, affermandosi portatore di un piano B.

Per essere franchi fino in fondo, poi, il parlamento era pieno di voci sul fatto che a Berlusconi sarebbero mancati parecchi voti della Lega e dei Fratelli d’Italia, così finalmente la destra si sarebbe liberata di lui. Invece, con una metodologia quasi goliardica, del tutto inappropriata per i Parlamenti passati (almeno fino al 2013), ma non in questo, che è del tutto atipico, Berlusconi e la simpatica armata Brancaleone che lo sosteneva, da Vittorio Sgarbi a Marcello Dell’Utri perfino al redivivo Lavitola, una quarantina di voti li aveva raggranellati (un pezzo del gruppo che poi ha votato Maddalena), ma era fortissimo il rischio di perderne altrettanti per il boicottaggio sostanziale di Lega e Fratelli d’Italia. La evidente svogliatezza e reticenza (per non dire peggio) di Salvini e della Meloni hanno spinto Berlusconi a un certo punto a ritirarsi.

A quel punto si è visto che Salvini non aveva nessun piano B in mano, e che il centrodestra, ovviamente, da solo non aveva alcuna maggioranza. Siccome non c’è’ limite al masochismo, dopo aver fatto ritirare il leader più amato e popolare in Parlamento, il centrodestra si è andato a contare su un esponente, la Casellati, che tutti sapevano essere invisa a una parte del centrodestra compresa Forza Italia. Per obiettività, va detto che a sua volta la Presidente del Senato poteva godere del sostegno di uno spezzone di Grillini, ex grillini, forse di qualche PD: probabilmente in quel caso le due cose sul piano numerico si sarebbero equivalse, per cui si sarebbe trattato di una battuta di arresto, ma non di una disfatta. Senonché la sinistra e i grillini, avendo capito la situazione, hanno preso contromisure: la sinistra non ha ritirato le schede per votare. A quel punto il centrodestra avrebbe dovuto avere la prontezza di riflessi di ritirare la candidatura della Casellati anche per tutelarla: non l’ha avuta è così È andata incontro a una sconfitta già scritta in partenza.

Comunque a quel punto la partita poteva essere ancora giocata, qualora il centrodestra, presa finalmente consapevolezza che non aveva i numeri per far passare un suo esponente, avesse deciso di sparigliare i giochi. Invece Salvini si è lasciato prendere da un attivismo forsennato che lo ha spinto in giro per Roma a suonare ai citofoni di persone serie e rispettabili come Cassese, Massolo, si parla perfino di Violante, coinvolte in un imbarazzante “burlesque”. Il centrodestra avrebbe ancora potuto uscirne bene se avesse sostenuto due candidati ad esso esterni, ma certamente non di sinistra: ci riferiamo da un lato a Draghi, dall’altro lato a Pierferdinando Casini, due soluzioni diverse l’una dall’altra, ma entrambe significative, di alto livello, e assolutamente tali da salvaguardare il sistema.
Invece Salvini ha scartato entrambe queste ipotesi, ma nel frattempo è scattata una operazione tutt’altro che innocente, quella inventata da Conte, che ha avuto come strumento l’ipotesi femminile imperniata sulla Belloni e che ha avuto l’immediato sostegno dello stesso Salvini e di Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia.

In quel caso si trattava di ben due distorsioni: per un verso nel migliore di casi l’Italia sarebbe diventata una sorta di Repubblica delle banane che nominava presidente della Repubblica chi dirigeva i servizi segreti; nel peggiore, indipendentemente dalle persone, si trattava di una operazione eversiva. In secondo luogo sulla ipotesi Belloni si formava una maggioranza a tre (Fratelli d’Italia, Lega e M5S) ben diversa, anzi opposta, alla maggioranza di governo. Allora va detto che l’indignazione di Giorgia Meloni è molto meno innocente di quanto non venga abilmente presentata. Giorgia Meloni è giustamente arrabbiata perché non le è riuscita una autentica manovra di Palazzo che, grazie alla doppiezza e alla ambiguità di Conte, avrebbe avuto come conseguenza la crisi del governo Draghi e le elezioni anticipate. Da quella manovra di Palazzo, Giuseppe Conte e Giorgia Meloni avrebbero ottenuto tutto mentre Matteo Salvini si sarebbe trovato in enormi contraddizioni ed Enrico Letta sarebbe finito in un burrone.

Fortunatamente- specialmente per il Pd e per Enrico Letta – la manovra è stata sventata con la consueta prontezza di riflessi, da Renzi (quello che per il Pd era l’uomo nero), da Berlusconi, dai centristi (Quagliariello, Toti) dal grillino Di Maio (adesso messo sotto accusa da Giuseppe Conte che è il personaggio descritto da Michele Prospero su Il Riformista di due giorni fa). Ciò detto però, oggi, oltre al centrodestra e al M5S, chi dovrebbe davvero discutere dovrebbe essere il centrosinistra. Infatti, prima secondo Zingaretti, poi secondo Bettini, Giuseppe Conte sarebbe dovuto essere “il punto di riferimento fortissimo dei progressisti”. Oggi Bettini cerca di cancellare in parte le sue impronte digitali, ma l’ipotesi è stata avanzata con grande forza politica e mediatica in tutti questi mesi.

Ora ci sembra evidente – ma ciò lo era già quando, con il consenso del Pd, aveva trasformato il Senato in un suk- che, come ha ben scritto Michele Prospero, Giuseppe Conte è un avvocato d’affari, formatosi nel rinomato e potente studio Alpa, che non ha nulla a che fare con i Grillini ma che ha invece rapporti con gli ambienti più vari del “mondo romano”, e con qualche pezzo dei servizi, alla ricerca di realizzare cordate con spezzoni del sistema politico. Insomma si tratta di uno spregiudicato trasformista pronto a salire sui taxi che passano, da quello di Salvini, a quello di quei polli del Pd, perfino a quello di Giorgia Meloni. Alla luce di tutto ciò quindi e al fatto che una area di centro è riemersa, ecco che il PD deve riaprire la riflessione politica su se stesso e sulle alleanze. Il governo Draghi deve fare i conti con una situazione politica destabilizzata da due lati, da quello del M5S e da quello della Lega.

Alla luce di quello che è accaduto mercoledì, Salvini continua nella sua linea dissennata di partito di lotta e di governo. Per di più la distinzione avvenuta ieri si è verificata ancora una volta sul tema “vaccini-Si vaccini-No”. Per di più l’ipotesi del Partito Repubblicano è del tutto evanescente perché non fondata né sulla scelta di due modelli di segno opposto – quello di Bush senior e quello di Trump – e tantomeno con la definizione di un riferimento preciso alle due scelte di stampo europeo – quella del PPE o quella dei Partiti sovranisti-. Tutto ciò richiede che, visto il taglio dei parlamentari che già di per sè ha un effetto maggioritario, che si arrivi ad una legge elettorale proporzionale anche perché le differenze all’interno di ogni polo sono tali che questo è l’unico modo per evitare che esse esplodano.

In secondo luogo è evidente che ormai c’è una area di centro in formazione che deriva sia dal centrodestra che dal centrosinistra e che essa non può essere strangolata in seguito ai meccanismi elettorali di stampo maggioritario.
In sostanza, dopo 7 giorni di ferro e di fuoco, per salvare l’Italia si è ritornati al punto di partenza, cioè a Sergio Mattarella presidente della Repubblica e a Mario Draghi Presidente del Consiglio. È augurabile che il governo tenga fino alla scadenza naturale del 2023, ma è anche del tutto evidente che nel centrodestra, al centro, e nel Pd sono aperte tre partite politiche decisive per il futuro del sistema politico italiano.