Tra le macerie delle coalizioni dopo l’elezione del Mattarella bis, c’è anche – o meglio ci dovrebbe essere – l’alleanza tra Pd e Cinque stelle. Più che un’alleanza la dovremmo chiamare una vera e propria ossessione, la volontà di arginare a tutti i costi, almeno a parole, il fenomeno populista sposandone leader e temi, senza avere la capacità di chiudere definitivamente con una cultura che ha portato il Paese indietro sul piano dei diritti, delle riforme, della politica.

Il quadro da sabato è però completamente mutato: centrodestra a pezzi, centrosinistra esploso con l’implosione dei Cinque stelle, la cui fine non è tanto attribuibile allo scontro tra i leader – che chiaramente sono ai ferri corti – ma alla fine di quella stagione politica. I Cinque stelle già consunti da tempo ora lo sono ufficialmente. Quel che resta del vecchio vaffa alberga solo nel giornale di riferimento, il Fatto quotidiano, ma il Movimento non ha più niente di ciò che lo aveva reso così popolare a tal punto da costituire un terzo polo. Finito questo, è morto anche il bipolarismo? Ma soprattutto ha ancora senso la scelta di Enrico Letta di continuare a puntare sul campo largo?

Il segretario dem insiste, anche se non più con la foga di un tempo, a parlare di alleanza con Conte che secondo lui ha un solo demerito, quello di essere stato «vittima di una macchina comunicativa di cui deve liberarsi, se vuol restare alleato con noi». Sotto accusa il povero Rocco Casalino, facile capro espiatorio, che di errori ne ha commessi tanti, ma solo perché gli è stato permesso di compierli da chi non ha nessuna capacità politica. Se l’avvocato del popolo da presidente del Consiglio era riuscito a ritagliarsi un suo profilo, da capo partito ha dimostrato una totale inettitudine. Non solo non è riuscito a tenere il partito sotto controllo, ma non è riuscito neanche – cosa ben più grave – a definire una nuova proposta politica. Anche il nuovo feeling con Matteo Salvini non è stato solo la conseguenza di una passione smodata per i giri di valzer, ma anche della confusione totale su quale sia la strategia da perseguire.

L’altra novità è il dialogo tra il Pd e Italia viva. Se oggi non usciamo dall’elezione del capo dello Stato con le ossa rotte è grazie all’asse che si è stabilito tra Matteo Renzi ed Enrico Letta. Tutti sospettavano il leader di Iv di chissà quale tradimento, invece il tradimento, anzi i tradimenti nel corso dei giorni li ha inferti Conte, mentre Renzi ha lavorato d’intesa con il suo ex partito, portando a casa una scelta assolutamente favorevole. «Sui temi di fondo – ha spiegato Renzi – siamo sempre dalla stessa parte. Enrico si è tranquillizzato quando ha capito che non avrei mai fatto asse sulla Casellati. In tanti pensavano che avrei votato Casellati pur di diventare presidente del Senato. Ma io mi chiamo Matteo Renzi: combatto contro tutti per le mie idee, non per un tornaconto personale. Quando davanti a un caffè ho chiarito a Letta che non avrei mai accettato lo scambio di poltrone è cambiato il clima. E abbiamo lavorato meglio». Un lavoro che ora pesa molto sulla situazione generale. Anche Letta ne parla positivamente: «L’asse con Iv ha funzionato. Con Matteo ci siamo ritrovati sui fondamentali: la collocazione internazionale del capo dello Stato, il suo profilo super partes». E così è andata. Ma con un quadro politico totalmente mutato.

Ed è in questo quadro che si inizia a ragionare della nuova legge elettorale, funzionale a un centro riformista che mette insieme Italia viva, Forza Italia e Coraggio Italia. Il proporzionale con sbarramento al 4 o al 5 per cento, che piace a molti ma non convince del tutto Renzi, potrebbe favorire questo raggruppamento e soprattutto permetterebbe alle forze politiche di riorganizzarsi dopo la fine delle coalizioni. Ci sta lavorando il dem Emanuele Fiano: «Queste ultime giornate hanno rafforzato in noi l’idea che il paese ha bisogno di un cambio della legge elettorale: un proporzionale con sbarramento alto e con meccanismi che diano voce ai cittadini nella scelta dei parlamentari». Fiano dice che è tutto pronto per essere approvato, basta volerlo. Il dopo sarebbe quel Draghi bis che prima di questa settimana di fuoco sembrava impossibile e che oggi torna in auge come unica possibilità di avere un governo che esca da un campo politico così frastagliato e in profonda crisi. I partiti avevano un’occasione per ribadire la loro forza e cercare uno sbocco alla crisi istituzionale che stiamo vivendo da tempo eleggendo un nuovo presidente della Repubblica, hanno perso questa occasione e oggi l’ex presidente della Banca centrale europea resta ancora la carta da giocare per il futuro del governo.

Che senso ha allora parlare ancora di “campo largo” come fa Letta? Che senso ha, come si è precipitata a dire Debora Serracchiani, l’idea che l’alleanza con i Cinque stelle non si mette in discussione? Tra qualche giorno potrebbero non esserci più i grillini, divisi in nuove formazioni, diversi per collocazione e per ideali. Certo, è difficile per i dem ammettere di aver sbagliato, di avere fatto la scommessa perdente. Ma c’è qualcosa in più. Chiudere con i pentastellati, o meglio con quello che resta di loro travolti come sono anche dalle inchieste giudiziarie, significa fare i conti con quel “grillismo” che ha contagiato nel profondo pure la sinistra. Significa fare i conti con un decennio di populismo e giustizialismo che ha contagiato tutte le forze politiche e che ha portato il Parlamento ad automutilarsi e a varare misure fondate esclusivamente sulla punizione, il reato, le manette. Basta. È questa la vera rottura con i Cinque stelle da consumare, per chiudere un capitolo triste della storia d’Italia.

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