L’ex sindaco nel mirino dei pm
Caso Fabozzi, i Pm non si arrendono e chiedono alla Cassazione di annullare l’assoluzione dell’ex sindaco di Villa Literno
A febbraio scorso la Corte d’appello di Napoli l’aveva assolto da una lunga serie di reati, primo fra tutti quello di concorso esterno al clan dei Casalesi: un’accusa infamante che, nel 2010, gli era costata l’arresto, diversi mesi in carcere, l’immancabile gogna mediatica e un brusco stop alla carriera politica. Contro Enrico Fabozzi, ex sindaco di Villa Literno e consigliere regionale del Partito democratico, ora i pm tornano alla carica chiedendo alla Cassazione di cancellare la sentenza di assoluzione e di investire del nuovo processo una diversa sezione della Corte d’appello. «Me l’aspettavo, non ho mai pensato che questa triste vicenda fosse chiusa – è il laconico commento di Fabozzi – Posso solo augurarmi, anzi ne sono certo, che la Cassazione confermi la mia correttezza come finora ha già fatto per ben cinque volte quando si è pronunciata sulle misure cautelari».
Nell’assolvere l’ex consigliere regionale del Pd «perché il fatto non sussiste», la Corte d’appello aveva smontato le accuse di collusione con la camorra, corruzione, turbativa d’asta, voto di scambio e riciclaggio a vario titolo contestate a Fabozzi e ad altri imputati. I giudici avevano riconosciuto le dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia «generiche, contraddittorie, prive di adeguati riscontri». Un esempio: a Fabozzi si contestava di essere stato eletto con i voti assicurati dai Casalesi in cambio di appalti; eppure il pentito Massimo Iovine non aveva mai fatto cenno a incontri con l’ex sindaco di Villa Literno, se non nel corso di un confronto con l’altro pentito Francesco Diana. Iovane aveva giustificato l’iniziale “dimenticanza” in modo singolare: «Scusate, ero confuso perché avevo avuto un lutto in famiglia». Come se non bastasse, la Corte d’appello avevano smentito la ricostruzione dei fatti emersa durante il processo di primo grado. Anche qui un esempio: il presunto voto di scambio di cui Fabozzi avrebbe beneficiato risaliva al 2003, ma la Procura e il Tribunale di Napoli lo avevano paradossalmente collegato a un episodio di (presunta) corruzione verificatosi nel 2007. Insomma, le 126 pagine delle motivazioni della sentenza d’appello allontanavano da Fabozzi (assistito dal penalista Mario Griffo) qualsiasi ombra, inclusa quella della condanna a dieci anni di reclusione inflittagli al termine del processo di primo grado.
I pm, però, non si sono rassegnati. E così ora la Procura generale della Corte d’appello di Napoli si rivolge adesso alla Cassazione lamentando come le dichiarazioni di alcuni pentiti – in particolare, quelle dell’ex boss Nicola Schiavone – siano state valutate con «contraddizioni, gravi omissioni e illogicità». Su queste e altre osservazioni, dunque, saranno i giudici romani a pronunciarsi e, nel caso in cui la sentenza di secondo grado dovesse essere annullata con rinvio, i magistrati di una diversa sezione della Corte d’appello di Napoli. Certo è che la vicenda Fabozzi si trascina già da undici anni ai quali se ne aggiungeranno probabilmente almeno altri due, il che la dice lunga sulla lentezza pachidermica della giustizia italiana e sulle conseguenze che certe disfunzioni possono avere sulle vite personali e sulle carriere di indagati, imputati e altri soggetti coinvolti nel processo. Ed è proprio su questo aspetto che si concentra adesso Enrico Fabozzi: «Undici anni tra inchieste e processi sono tantissimi per chiunque, soprattutto per chi, come me, è in età avanzata e davanti a sé non può avere un orizzonte di vita e politico molto lungo».
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