L'espulsione della donna kazaka
Caso Shalabayeva, il Pm chiede 4 anni per Cortese e Improta
«I funzionari hanno voluto compiacere ciò che veniva chiesto dall’ambasciata kazaka e il Viminale ha seguito la vicenda fino all’espulsione della moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov. Perché lo abbiano fatto, non lo sappiamo, Alma Shalabayeva non era ricercata e non aveva commesso nulla, era però interesse fare in modo che questa donna servisse per la cattura del marito». Con queste parole il procuratore generale di Perugia Sergio Sottani e il sostituto Claudio Cicchella hanno concluso ieri la loro requisitoria, chiedendo per i dirigenti della polizia di Stato Renato Cortese e Maurizio Improta la condanna a 4 anni di reclusione con 5 anni di interdizione dai pubblici uffici per l’accusa di sequestro di persona.
In primo grado Improta e Cortese erano stati condannati a cinque anni. Stessa condanna per alcuni funzionari della squadra mobile e dell’Ufficio immigrazione della Questura di Roma che nel maggio del 2013 operarono l’espulsione verso il Kazakistan di Alma Shalabayeva e della figlia di sei anni Alua. Nel processo era stata assolta dall’accusa di sequestro di persona il giudice di pace Stefania Lavore che si occupò del procedimento, condannata per falso a due anni e sei mesi. L’espulsione verso il Kazakistan nella sentenza di primo grado venne descritta come un “crimine di lesa umanità realizzato mediante deportazione”, oltre che “un caso eclatante” di “straordinario accanimento persecutorio” e “violazione dei diritti fondamentali della persona umana”. Alla fine di maggio del 2013, Alma Shalabayeva venne prelevata dalla propria abitazione romana nel quartiere residenziale di Casal Palocco, portata in questura, poi al Cie e infine rimpatriata in Kazakistan con un volo a noleggio.
I magistrati di Perugia hanno sempre definito “anomalo” ed “eccezionale” l’iter che ha portato al nulla osta per l’espulsione della donna. Tutto regolare, invece, per l’ex procuratore romano Giuseppe Pignatone, chiamato dalle difese dei due funzionari, secondo il quale «il passaporto era falso e nessuno ci chiese l’asilo politico. L’espulsione era un nostro dovere». Il Viminale negli anni ha sempre ribadito la correttezza della procedura tenuta dai suoi dirigenti. La questura di Roma, in pratica, si sarebbe ritrovata tra le mani il documento falso di una donna e nessuno poteva sapere che fosse la moglie di un dissidente politico del Kazakistan. «Anche perché, cosa è venuto in tasca ai poliziotti?», hanno detto i difensori dei due dirigenti.
Tesi confutata da Sottani: «Si cercava Mukhtar Ablyazov. Perché l’Interpol di Astana non si è rivolta all’Interpol italiana ma è stato direttamente l’ambasciatore a richiedere l’intervento della questura romana? Si è proceduto all’espulsione di una donna che tutt’al più poteva essere estradata ma non c’erano neppure i presupposti».
Nessuno, poi, pare fosse stato però messo al corrente che l’aereo utilizzato per il rimpatrio era stato noleggiato. «Non sapevo se fosse un aereo di linea o noleggiato. Non lo sapevo io, non lo sapeva Eugenio Albamonte (pm di turno all’epoca, ndr)», ha detto sempre Pignatone. La sentenza è attesa dopo Pasqua. A presiedere il collegio, il giudice Paolo Micheli, a latere i colleghi Maria Rita Belardi e Franco Venarucci.
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