La riflessione
Che pena la politica ridotta a tifoseria, così non ripartiremo mai
Sono un ragazzo di venticinque anni, neolaureato in Giurisprudenza, e vivo in un Paese nel quale non esiste più un sano confronto politico ed ideologico. Il 20 e il 21 settembre gli italiani sono stati chiamati alle urne per un referendum costituzionale vertente sulla possibilità o meno di ridurre il numero di parlamentari. La vittoria del sì è stata netta e ha rispecchiato la volontà del 69% dei votanti effettivi. Sia tuttavia chiaro, lo strumento democratico poc’anzi citato non è l’oggetto di quanto segue ma solo un mezzo per trattare la reale e paradossale situazione in cui oggi stazioniamo. Prima del referendum ho avuto modo – o almeno tentato – di confrontarmi con chi poteva pensarla come me, ma anche in maniera opposta. Ho trattato il delicato argomento con studenti, laureati o laureandi in Giurisprudenza, Scienze politiche o Economia. Morale della storia? Il dibattito è morto.
Il dibattito sano, costruttivo e finalizzato a un miglioramento collettivo non esiste più. Abbiamo, forse inconsciamente o forse con cognizione di causa, trasformato quello che dovrebbe essere il più alto momento della vita pubblica in uno scontro tra tifoserie calcistiche, ma qui non si parla di un gioco e chi perde siamo sempre noi, popolo e Paese. Ecco dunque che, nel nome della tutela della Costituzione, ho sentito persone millantare la propria preparazione giuridica, lamentarsi di una riduzione (a loro avviso) lesiva della rappresentanza territoriale, senza constatare o anche solo accennare al come, parlando di Parlamento, il singolo eletto non rappresenti e non debba rappresentare gli interessi del territorio d’appartenenza ma quelli nazionali. Ho sentito chi bollava il taglio della spesa pubblica, scaturente da tale manovra, come “ridicolo”, parlando di “un caffè a testa”, senza minimamente riflettere sul fatto che non si può ragionare dividendo una somma come 52,9 milioni di euro per il numero della popolazione poiché, in questo modo, qualsiasi spesa pubblica risulterebbe irrilevante da sostenere individualmente.
Ascoltato chi, su una posizione totalmente differente, sosteneva fosse giusto tagliare il numero dei parlamentari perché «tutti ladri ed imbroglioni», senza constatare di aver non solo partecipato, molte volte direttamente, all’elezione di questa classe dirigente, ma come la riforma proposta sia in realtà l’esasperazione di un populismo becero che risolve solo all’apparenza il problema, senza intaccare minimamente gli elementi di fatto, come i vitalizi o le enormi agevolazioni della politica italiana. Nonché quell’atavica frattura tra Nord e Sud, con un Paese a due velocità economiche e sociali, dove la politica dovrebbe provvedere a sanare la posizione del Meridione. E non è ancora questo il problema. Se tali opinioni fossero esposte in maniera chiara, pacifica e, soprattutto, comprendendo il come, trattandosi di un referendum, non può, in linea di principio, identificarsi una risposta corretta aprioristicamente, allora il problema sarebbe marginale.
Questo referendum poteva essere l’episodio perfetto per ricordarci cosa vuol dire Democrazia, sì, con la D maiuscola perché così bisogna ricordarla e volerla. Invece? Invece no. Noi, noi non abbiamo più la politica ma solo politici fantoccio, analfabeti funzionali e premi Nobel immaginari che alimentano e incentivano questo enorme incendio sociale, tra un like, un commento sarcastico e tanti inutili meme. Abbiamo troppi esempi negativi e troppi pochi momenti d’analisi e riflessione.
Un esempio? Il presidente del Consiglio ha ben pensato di adoperare Facebook, in pieno periodo di crisi, per rivolgersi agli italiani prima ancora di andare in onda sui canali Rai. Forse noi cittadini non contribuiamo minimamente al mantenimento di un tale servizio oppure sì? Non ricordo. Se, da una parte, in questi casi la tecnologia aiuta, favorendo la comunicazione, dall’altra uccide il confronto, dando solo l’idea di una relazione di scambio e di dialogo tra classi sociali differenti, quando in realtà non si conosce neanche l’identità di chi realmente si cela dietro quel post pubblicato a nome del partito di turno. Perché tutta questa velocità nella comunicazione ha ucciso l’importanza della notizia, la sua rilevanza e percezione, come ha avuto modo di sottolineare Denzel Washington. Poiché oggi, in base, al nostro modo di fare politica, è più importante la velocità con cui si trasmette che non la veridicità di quello che si dice.
Ed eccoci qui, tutte le motivazioni esposte in grandi linee, tutto quello che ha portato al fallimento del confronto sano prima delle votazioni. Tristemente, in questo scenario, l’unico vincitore è chi si estranea dal dibattito, si eleva sopra la massa e non la ritiene degna della propria opinione, punzecchiandola sarcasticamente, ma neanche troppo, per tutta la durata di questa barzelletta che voi chiamate democrazia ma che, di fatto, non è altro che un’enorme presa in giro collettiva. Non può esserci democrazia senza un confronto effettivo e costruttivo e qui, ancora una volta, non esiste.
La politica non sono dei colori e degli slogan, sono le persone, sono delle idee che rimangono nelle menti e nei cuori e solo dopo si trasformano in bandiere, cortei e voti. Altrimenti torniamo allo stato di natura o alla visione hobbesiana di Stato assoluto o a quello che volete, ma smettiamo di chiamare tutto questo “democrazia” perché mentiamo e dimostriamo di non essere in grado e di non avere voglia di coltivarla.
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