Se qualcuno, poche settimane fa, mi avesse detto che nel referendum il numero dei votanti per il No tra gli elettori italiani sarebbe stato di 7 milioni e mezzo, non ci avrei creduto. E pensare che il numero dei votanti è dieci volte superiore a quello registrato nell’ultima votazione alla Camera (per cui ha votato solo il 3%). Più di un decennio di retorica sulle “poltrone” e di pubblicistica sulla Casta come causa dei mali della politica italiana ha creato un senso comune anti-parlamentare, che evidentemente non era possibile arginare con il buon senso democratico, dopo una campagna elettorale in cui proprio Agcom ha certificato la violazione delle norme sulla par condicio da parte di tutte le principali testate televisive.

Per quella che a qualcuno apparirà una ostinata fissazione senile, ma che ritengo il presupposto di qualunque “conoscere per deliberare”, rimango persuasa che la competizione democratica non possa prescindere da una informazione corretta, impegnata a raccontare e a spiegare gli eventi politici, e non a determinarli. Quando leggo, come è successo ieri, che il Presidente della Camera, Fico dichiara il proprio impegno a «liberare la Rai dalla politica e dai partiti» perché «departitizzare la Rai è fondamentale», mi viene amaramente da sorridere nel constatare come il M5S si sia rapidamente adeguato alla logica e allo stile della partitocrazia d’antan, che mentre occupava ogni spazio del potere pubblico, a partire dalle antenne tv, annunciava ambiziosi programmi di liberazione dello Stato dai partiti. Anche per questo, il risultato del 20 e 21 settembre è stato nello stesso tempo una sconfitta netta e un risultato straordinario per i sostenitori del No.

Quel che è avvenuto prima, durante e dopo il voto sul referendum avrà ovviamente degli effetti di lungo periodo, per quanto possano essere lunghi i tempi in un contesto storico e mediatico, in cui il “ciclo di vita” dei fenomeni politici tende radicalmente ad accorciarsi e la mobilità dell’elettorato e dell’opinione pubblica presenta caratteristiche inedite e imprevedibili. Dico questo per rassicurare quanti temono e per inquietare quanti sperano che il populismo sia la fine della storia italiana. Non lo sarà. Quanto è accaduto prima del referendum è presto detto: la subordinazione della formazione del governo Conte-bis alla approvazione della riforma costituzionale del Conte-uno. Quanto è accaduto nelle urne è altrettanto chiaro: una chiara ribellione degli elettori dei partiti schierati per il taglio (a parte quelli del M5S), che nel caso degli elettori del Pd gli istituti di ricerca stimano essere di uno su due.

Quanto è accaduto dopo il referendum – e si vede benissimo dopo le prime 24-48 ore – non è stato l’inizio di un grande processo di riforma della Carta e delle istituzioni, ma la prosecuzione di un “programma”, che coincide con lo stupidario demagogico e eversivo del M5S sul cosiddetto taglio degli stipendi e sul vincolo di mandato. Avere impedito un plebiscito per il Sì pone più problemi ai vincitori, che agli sconfitti del referendum. Il tentativo di fare passare la mutilazione della rappresentanza come una richiesta unanime dell’elettorato deve fare i conti con l’esistenza di sacche di resistenza tutt’altro che marginali, soprattutto in uno dei partiti della maggioranza di governo. Dall’altra parte, il tentativo di fare passare il come un viatico a una grande riforma elettorale e istituzionale deve fare i conti con la constatazione che le forze di maggioranza non sono d’accordo praticamente su nulla.

Nel contempo i veri nodi irrisolti del nostro assetto costituzionale – cioè il bicameralismo paritario e il conflitto di poteri tra Stato e Regioni – sono praticamente spariti dai radar, mentre la riforma del Titolo V della Costituzione e dello sconclusionato “federalismo all’italiana” sembrano decisamente pregiudicati dal peso crescente assunto dai governatori regionali, nell’uno e nell’altro schieramento. Quanto agli effetti sullo scenario politico, mi pare presto per dire quanto il governo esca rafforzato dal referendum, anche perché bisognerebbe intendersi su cosa significa il “rafforzamento” di un esecutivo. Al momento – vedremo domani – rimane un Governo che non riesce neppure a decidere di usare il Mes e di risparmiare 5 miliardi in 10 anni di interessi sul debito e che sembra intenzionato a presentarsi al tavolo del Recovery Fund come i disperati alle rivendite di Gratta e Vinci.

Un’ultima considerazione sulla situazione delle forze e delle personalità politiche che si sono impegnate nella battaglia per il No, a cui giungono da più parti inviti a trovare il proprio posto al tavolo del “nuovo” bipolarismo italiano. Una considerazione che mi riguarda personalmente e che riguarda il partito di +Europa che è stato – ricordiamolo! – il solo ad avere votato quattro volte su quattro contro il “taglio” sia alla Camera che al Senato. Sui temi istituzionali, come su quelli economici e sociali, come su quelli relativi ai diritti e alle libertà, l’alternativa non è e non può essere tra un populismo e un altro o, per dirla con un esempio, tra i leghisti che si astengono al Pe sulla risoluzione di condanna delle repressioni di Minsk e i grillini che si astengono su quella di condanna della Russia per l’avvelenamento di Navalny. Sul referendum il Pd ha scelto di accodarsi a Di Maio, Salvini e Meloni e più che scavare un solco con chi ha votato No, ha scavato un solco nel proprio stesso elettorato.

Il Sì nel referendum, come il Sì alla riforma alla Camera, è stata l’ennesima conseguenza della scelta di sostenere il governo Conte-bis. Quindi, alla richiesta di sedersi al tavolo della coalizione demo-populista, penso che si debba dare la stessa risposta che abbiamo dato nel referendum: “No grazie”.