La linea che distingue l’atto di cortesia istituzionale e l’autoproclamazione è sottile. È un attimo passare da statista consapevole dell’ottimo risultato ottenuto in Europa e del fatto che però la sfida vera inizia ora a capopopolo che dà la sensazione netta di poter quasi, già che c’è, diventare “imperatore”. Giuseppe Conte ieri ha correttamente informato prima il Senato e poi la Camera su cosa è accaduto a Bruxelles. Un intervento di 35 minuti in cui ha indugiato più su quello che è stato, la tipologia dell’accordo, che non su quello che va fatto adesso, da ora in poi. Eppure le 68 pagine del Memorandum finale offrono molti spunti in questo senso. È stato accolto dalla standing ovation grillina in entrambi gli emicicli e lui ha celiato: «Questa non è la mia vittoria e neppure della squadra di governo ma di tutti gli italiani». Ha fatto il bagno di folla fuori dal Senato tra selfie e pacche sulle spalle. L’entusiasmo a volte fa brutti scherzi. «Di dove sei» ha chiesto Conte ad un giovane con tratti orientali e mascherina. «Bangladesh…» è stata la risposta, uno degli stati più colpiti dal ritorno del virus. Alla Camera i ministri Pd lo hanno ascoltato in piedi ai bordi dell’emiciclo, al tavolo del governo solo un paio di ministri 5 stelle. Gli hanno voluto lasciare la scena? In ogni caso, una passerella trionfale.

In vena di citazioni storiche qualcuno ieri, in qualche capannello Pd, paragonava Giuseppe Conte «che si vuol fare la task force per gestire in prima persona i progetti» a Giulio Cesare che da dittatore si fece re. Il gioco di società è stato «chi è Bruto», ovverosia chi guiderà la congiura, e quando saranno le idi di marzo. «Ora si goda pure queste 72 ore di gloria – è stato il suggerimento – ma poi si ricordi come è arrivato lì, chi lo ha blindato e si ricordi che il Pd non può fare il portatore d’acqua». Non è un caso se la giornata trionfale in Parlamento è stata subito graffiata da un vero e proprio bombardamento a parole e sui social sul Mes. Prima il capogruppo al Senato Andrea Marcucci, poi il capogruppo alla Camera Graziano Delrio: «Siamo convinti che i fondi del Mes siano necessari perchè sono subito disponibili». Delrio lo ha inviato a fornire presto «il quadro complessivo delle risorse, dei vantaggi e degli svantaggi e delle eventuali condizionalità perché ci aspettiamo di poter scegliere nell’interesse dei cittadini». Matteo Renzi lo ha incalzato al Senato perché «i 37 miliardi del Mes hanno una condizionalità inferiore ai prestiti del Recovery Fund. Se non si ha il coraggio di dirlo, si sta mentendo.

Sono risorse che arrivano in autunno e vanno ai cittadini». Un bombardamento completato nel primo pomeriggio via social dal segretario del Pd. «L’utilizzo del Mes è positivo e utile. Il governo decida in fretta». Il messaggio è chiaro: presidente Conte, l’ora dei festeggiamenti e dei selfie è già finita. Il Pd in pressing chiede “un atto d’amore”, se non la golden share della maggioranza almeno sia chiaro che il Nazareno con il suo quasi 20 per cento di consensi non è certo disponibile a fare “il portatore d’acqua” di re Conte e della sua truppa di grillini. Una dinamica che sta dietro anche l’insistenza con cui il Pd non molla il punto sulla legge elettorale: c’era l’impegno ad approvarla “almeno” in un ramo del Parlamento entro settembre, in coincidenza con il referendum sul taglio dei parlamentari. Impegno assunto da Iv e M5s. E se Renzi la considera adesso un argomento fuori tema, ugualmente fanno i 5 Stelle, soprattutto loro meno attenti a rispettare l’impegno preso.

Ma tutto sommato non è tra le fila del Pd, non ora almeno, che va cercato il Bruto che potrebbe mettersi a guidare la congiura contro Conte/Cesare. Gli indizi portano piuttosto a Luigi Di Maio. È l’ex capopolitico del Movimento il più spiazzato dal successo di Conte. Giudica “inopportuna” l’idea della task force per gestire la fase progettuale del Recovery Fund che andrebbe, gioco forza, a togliere potere ai ministeri. Non piace, a Di Maio, l’entusiamo con cui le truppe parlamentari lo hanno acclamato ieri. La leadership di Conte sta diventando troppo ingombrante per chi, come Di Maio, considera “cosa sua” il Movimento. «Se vuole esserne il leader, il Professore si deve iscrivere al Movimento» è il consiglio che viene dall’inner circle del ministro degli Esteri. La storia insegna che sono spesso gli ex fedelissimi a guidare le congiure. E settembre, tra il risultato delle regionali e il ritorno a scuola, potrebbero essere le idi di marzo.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.