Non abbiamo proprio scherzato ma poco ci manca. La famosa “vittoria dello Stato” sugli “orribili” Benetton che per anni hanno “approfittato di un bene dello Stato pensando solo al profitto e non alla sicurezza dei cittadini” si traduce, dopo 48 ore di ubriacature lessicali, in un accordo salvo intese. Cioè ancora tutto da scrivere e definire. I paragoni volano verso Di Maio sul terrazzino di palazzo Chigi quando annunciò al mondo che era stata abolita la povertà. Prima che la propaganda faccia altri danni, la ministra De Micheli (che a dir la verità non ne ha mai fatta) corre ai ripari. Ieri pomeriggio ha chiesto alla Aspi dei Benetton “il piano economico-finanziario”. C’è una data tassativa di consegna: il 23 luglio. Dunque dalla telefonata e dalle mail della lunga notte a palazzo Chigi si passa ad un piano vero e proprio. Nel Piano dovranno «essere riportati puntualmente tutti gli elementi anticipati dal concessionario nella proposta transattiva sottoposta alla valutazione del Consiglio dei ministri del 14 luglio».

Tra questi impegni c’è «la volontà di effettuare interventi compensativi senza effetto sulla tariffa per un importo di 3,4 miliardi, un programma di investimenti sulla rete autostradale fino a 14,5 miliardi, una consistente riduzione della tariffa». Nella missiva si legge che «il Mit è in attesa di ricevere il Piano per valutarne la rispondenza alle condizioni definite e accettate da Aspi». Questo è il punto. E mentre ieri il titolo Atlantia, il gruppo di cui i Benetton hanno la maggioranza relativa (30%) e con cui controllano Aspi (con l’88%), tornava a perdere in borsa (-4,80%) dopo il rimbalzo di mercoledì (23%), tecnici e analisti si sono messi a fare un po’ di conti.  Alla fine “la svolta dello Stato” potrebbe costare allo Stato più di venti miliardi. Una statalizzazione molto cara in tempi in cui l’Europa chiede di privatizzare e alleggerire il pubblico. Cassa depositi e prestiti, una volta autorizzata l’operazione, dovrà sborsare 5-6 miliardi. È il valore dell’88% in pancia ad Atlantia e dovrebbe essere lo stesso della transazione, della cessione titoli a Cdp che poi gestirà la quotazione Borsa di Aspi. Cdp terrà per sé il 51% e quindi dovrebbe recuperare nell’arco di una anno circa il trenta per cento dell’investimento. Quello effettivo alla fine sarà intorno ai quattro miliardi. Si tratta dei risparmi dei correntisti di Poste italiane.

Sappiamo che Aspi si è impegnata per circa 14,4 miliardi di opere di ristrutturazione (da realizzare entro il 2038, anno in cui scade la concessione) e per altri 3,5 miliardi per abbassare le tariffe e fare opere viarie e strutturali in compensazione. In tutto sono 18 miliardi. Chi dovrà sostenere questi investimenti: la vecchia o la nuova Aspi? «La nuova, è ovvio» tagliano corto dal ministero delle Infrastrutture. «Ma saranno più che compensati dai guadagni sui pedaggi». In attesa del Piano finanziario (il 23 luglio) la lista delle domande aumenta. Con le risposte che mancano. Il capitolo cause, malleva, risarcimenti civili. I Benetton sono stati messi a testa in giù in assenza di uno straccio di prova o condanna. Hanno inanellato una serie di errori di comunicazione (il silenzio durato giorni dopo la tragedia delle 43 vittime) e di scelta del management (hanno impiegato un anno per cacciare l’ex ad di Aspi, il responsabile tecnico delle politiche gestionali, dai mancati controlli alle altre omissioni). «Hanno fatto soldi e non si sono occupati della sicurezza» è l’accusa.

Ma quello è compito dei tecnici. Francamente non della dinasty di Treviso. Il punto è questo: il penale è individuale e risponderà chi sarà condannato. Ma chi pagherà il risarcimento civile? La vecchia o la nuova Aspi? Anche questa rischia di essere una cifra importante. Il premier Conte si è molto risentito perché, prima del Consiglio dei ministri, Aspi si era rifiutata di farsi carico della manleva di cause e risarcimenti eventuali a terzi. C’è poi il tanto sbandierato tema della difesa dell’interesse pubblico. Quale investitore straniero o anche italiano vorrà in futuro trattare con uno Stato che costringe un imprenditore a scegliere tra la cessione del controllo della società o la revoca della concessione di cui, nel frattempo, si è cambiato unilateralmente il valore dell’indennizzo (da 23 a 7 miliardi)? Non c’è dubbio che in questo caso l’interesse pubblico non coincide con lo stato di diritto. E però, come dicono i cartelli nel video postato dall’ex ministro Toninelli, è stata “una grande vittoria del Movimento 5 Stelle”.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.