La Costituzione italiana può piacere o meno. Certo si deve constatare con soddisfazione che, questa volta, é stata messa da parte la retorica stucchevole della Carta fondamentale “più bella del mondo”, tanto abusata qualche tempo or sono e praticamente al solo fine di affossare la riforma del 2016. A occhio e croce il bilancio che questa Carta ci consegna ha molte voci in negativo. La Costituzione è servita poco a governare la piena crescita democratica di un paese uscito da una dittatura militarmente sconfitta. Il confronto con Germania e Giappone sarebbe impietoso in ogni settore civile, politico ed economico. E anche il decorso pacifico della Spagna post-franchista ci lascia punti in molti ambiti.

La Carta ossia il patto costitutivo della Repubblica non ha potuto impedire che agguerrite corporazioni si impadronissero delle istituzioni e della vita economica della nazione; che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura finissero nelle mani di un manipolo di faccendieri consociativi; che le risorse pubbliche fossero sperperate da una burocrazia elefantiaca e inefficiente; che, in piena pandemia, non si trovasse neppure una norma per regolare almeno di massima i poteri d’emergenza del presidente del Consiglio. Tutte cose, si badi bene, che una Costituzione avrebbe dovuto fare o impedire che fossero fatte. Tutte cose che imponevano e imporrebbero una drastica manutenzione della Carta nello snodo decisivo non della mera declamazione dei diritti e delle libertà – che nessuno vuole manomettere – quanto di una nuova distribuzione dei poteri e di una loro efficiente organizzazione alla luce delle urgenze democratiche che affliggono il paese.

Basterebbe guardare alla faticosa, e forse insufficiente, elaborazione della legge Cirinná sulle unioni civili per comprendere quanto aspro sia il percorso per la realizzazione di libertà e diritti fondamentali che stentano ancora a trovare un pieno riconoscimento a decenni dallo loro stentorea, quanto inefficace proclamazione nella Carta. Una Carta che ha lasciato per troppo tempo i cittadini in balia di vulnerabili e volubili maggioranze parlamentari, precludendo loro la tutela diretta e, quindi, l’esercizio effettivo delle proprie libertà se non sotto l’ombrello paternalistico di una legge prima o poi a venire. Forma senza sostanza.  È di pochi giorni or sono l’esplicita dichiarazione del presidente della Consulta che l’intervento a piedi uniti consumato sull’eutanasia, nel caso Cappato, è stato imposto dall’inerzia del Parlamento. La Corte «ha sospeso il giudizio per dare ruolo al Parlamento», ma poi trascorso un anno e non vedendo segnali di ravvedimento «la Corte ha dovuto decidere», ha ammesso la presidente Cartabia. Un fatto dirompente, ignorato da molti, che ha posizionato ancora di più la Corte costituzionale in un quadrante “legiferante”, di terza Camera, che la Carta del 1947 aveva trascurato di considerare, lasciando (come detto) l’attuazione di diritti fondamentali dei cittadini in balia degli umori di maggioranze politiche instabili e inerti. In questa scia non deve trascurarsi l’impatto che probabilmente sarà destinato ad avere sul regime carcerario, e sul tema eluso e schivato della rieducazione dei condannati, il lungo viaggio della Corte nelle carceri Italiane.

Così presentato, al suo inizio, sul sito ufficiale della Consulta: «La Corte costituzionale ha deciso, all’unanimità, di estendere il “Viaggio in Italia” ad altre realtà sociali e di cominciare dal Carcere, luogo solitamente rimosso, se non cancellato, nell’immaginario collettivo sebbene rappresenti un pezzo di Paese, “popolato” da persone che, pur private della libertà (per lo più temporaneamente), hanno gli stessi diritti e doveri dei “liberi”». Appare, a tutta prima, un manifesto politico e giuridico, congruo a una funzione ripetesi sostanzialmente legiferante e che prefigura un controllo costituzionale sulle norme non esteriore e formale, ma volto a verificare il concreto, materiale assetto e l’effettiva tutela delle libertà individuali. Un fatto che si accompagna alla pari funzione legiferante (nomopoietica, direbbero i tecnici) che, da tempo, svolge la giurisprudenza ordinaria con la propria attività di interpretazione di claudicanti e malconce leggi di fattura parlamentare, riempite di contenuti o rese monche di significati a seconda delle urgenze imposte dal caso concreto sotto esame.

Lo svuotamento progressivo del potere legiferante e la sua delegittimazione è, come si vede, un’operazione a largo raggio che si è praticamente imposta nella Costituzione materiale del paese proprio per le vistose manchevolezze di una Carta formale che, tanto per dire, ha reso brodaglia l’iniziativa legislativa popolare (come ben sanno, da ultimo, le Camere penali) o che non riesce più a dare indicazioni autorevoli sull’assetto ideale e, quindi, politico di una democrazia finita in mano a pulviscolo di corporazioni intangibili e di oligopoli voraci, con un fisco iniquo, una scuola a pezzi, una ricerca scientifica in fuga e così via. In questo scenario il voto sulla legge costituzionale che taglia in modo consistente il numero dei parlamentari non è altro che il risvolto, la conseguenza e la presa d’atto collettiva di una più radicale e profonda mutilazione della funzione legislativa parlamentare che si é consumata e che avanza in modo inarrestabile anche in tutti i consessi della giurisdizione. Se fosse solo un’operazione populistica e demagogica – come viene presentata, con una certa spregiudicatezza, sia dai molti fautori che dai pochi detrattori – sarebbe in fondo non troppo grave.

Il punto è che, come l’evoluzionismo dimostra in natura, ogni organo o senso a lungo andare cessa di funzionare e scompare se perde la propria utilità vitale. Ecco, il voto referendario sarebbe stata un’ottima occasione per discutere della contrazione “qualitativa” della funzione parlamentare e di cui quella numerica e quantitativa non è che il conseguente e “naturale” precipitato e, forse, il prologo per la sua tormentata e agonica dissoluzione in favore di altri poteri (Europa, regioni, giudici, autorità di vigilanza, autoregolamentazioni privatistiche e via seguitando), come anticipato dai più acuti osservatori della crisi delle democrazie liberali.