Sul referendum costituzionale di settembre sulla riduzione del numero dei parlamentari, molti colleghi costituzionalisti hanno preso posizione, come già accaduto nell’ultimo referendum del 2016. Ben venga, il costituzionalista non dovrebbe risiedere nella torre d’avorio della solitudine intellettuale. Al netto della divisione tra gli studiosi e le analisi dell’impatto delle modifiche, non va dimenticata una novità (almeno così parrebbe) rispetto ai precedenti del 2001, del 2006 e del 2016: questa volta sembrerebbe che si sia innanzi a una modifica puntuale e specifica della Carta senza una portata complessiva.

Nel corso della campagna referendaria del 2016 (quella sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi) alcuni studiosi insistettero molto sul tema, in particolare quelli sostenitori del No, per chiedere di frazionare il referendum in più quesiti stante la mole delle norme interessate. Una richiesta che però non fece strada in sede giurisdizionale e che non aveva alcun fondamento costituzionale visto che l’articolo 138 della Costituzione parla di “leggi pubblicate” sottoposte a eventuale referendum confermativo e non, come nell’articolo 75 della Costituzione, di totalità o parzialità dell’intervento in quel caso abrogativo. Oggi, ci viene detto da alcuni, siamo di fronte a un referendum così puntuale che riguarda solo un po’ di numeri in Costituzione: quale intervento potrebbe mai essere più preciso? Tant’è che le analisi più semplicistiche (e alcune volte abbastanza molto avvilenti) si fondano su risparmi e tagli, con un misto di pauperismo istituzionale e di invidia sociale, da un lato e di controproposta di tagli alternativi e drammatizzazione democratica dall’altra.

Le analisi più attente e interessanti, invece, giustamente insistono nel valutare l’impatto dei nuovi eventuali “numeretti” su tutta la Costituzione e sul funzionamento delle istituzioni. Si va dai rischi nella composizione del collegio che elegge il presidente della Repubblica, fino a quello che elegge gli organi di garanzia, alla capacità di rappresentatività del tessuto sociale italiano e del suo pluralismo e così via. Ecco il punto: la Costituzione si tiene come un edificio al quale ogni modifica, anche quella che a un occhio non attento sembrerebbe minima, porta modifiche in un senso o in un altro rispetto al funzionamento delle istituzioni repubblicane. Basti pensare che il Parlamento, dopo aver approvato il testo di riforma, ha messo subito mano a una ulteriore legge costituzionale per correggere gli effetti distorsivi dell’approvazione della prima…

Non siamo di fronte alla prima riforma costituzionale cosiddetta “puntuale”, ma siamo alla prima di questa presunta tipologia che finisce al giudizio delle urne. Ci si immagina allora che proprio perché puntale sia chiaro l’atteggiamento dei partiti: tutto il contrario. In ciascuno di essi, salvo poche formali eccezioni (in sostanza non sono compatti neppure quelli che sembrano esserlo), regna grande divisione tra i sostenitori del Sì e quelli e del No e i tanti in difficoltà nello schierarsi. La divisione non è tra i partiti, ma nei partiti e la presunzione di esito (una schiacciante vittoria dei si dicunt) ammutolisce pezzi interi di classe dirigente che, salvo eccezioni, non vuole trovarsi sconfitta “dal popolo” per di più in un referendum richiesto proprio da alcuni parlamentari.

Infine, partiamo dall’inizio: chi ha approvato questa riforma in Parlamento è stata la maggioranza che sosteneva i due governi che si sono susseguiti (con qualche eccezione). Peccato che si tratta di due maggioranze composte in modo diverso nel tempo, così alcuni che hanno votato una volta a favore o una contro nelle diverse votazioni! Il referendum costituzionale, pensato in ben altro contesto istituzionale, si conferma strumento rozzo e impreciso per la società della complessità e del pluralismo e quindi non può che esserlo per la Costituzione che questo modello di società difende con le proprie norme. “Numeretti” inclusi.