Non comporta risparmi (se non nell’ordine dello zero virgola qualcosa rispetto al Pil nazionale), non migliora l’efficienza del Parlamento (anzi, creerà non pochi problemi al funzionamento delle commissioni) e non supera il bicameralismo paritario. Quella sul taglio dei parlamentari, su cui gli italiani saranno chiamati al referendum il prossimo 20 e 21 settembre, non può che definirsi una non-riforma. E ad una riforma che non riforma si potrebbe anche pensare di approcciarsi con un “perché no?”. Ma non faremo così.
Volevano risparmiare? Non lo faranno e comunque sarebbe stato incommensurabilmente più conveniente tagliare gli sprechi connessi ai 20 diversi sistemi sanitari che oggi sono replicati con soluzioni non paragonabili e spesso non comunicanti, in ogni regione italiana. Qui sì che una riforma (vera) servirebbe come il pane.
Il taglio lineare dei parlamentari, così come è stato concepito, a fronte di risparmi risibili, nelle regioni più piccole, ridurrà anche di oltre il 50% i parlamentari che andranno a Roma. Pensiamo all’Umbria e alla Basilicata che da 7 si ritroveranno con solo 3 senatori o al Friuli Venezia Giulia e all’Abruzzo, cui ne toccheranno solo 4. Meno persone a difendere nelle rispettive Camere o al tavolo di un governo, le ragioni, le necessità, le opportunità di una regione. Potrebbe essere un bene se la politica fosse questua fine a se stessa. Ma sono convinto che il ruolo del politico sia e debba essere ben altro.
È innegabile che ci sia bisogno di snellire la catena decisionale, fluidificare decisioni ed effetti che queste producono sulla gestione amministrativa ma se questo era lo scopo si sarebbe dovuto superare il bicameralismo, abolendo il Senato come lo conosciamo ora: le piccole regioni (e non sono poche), avrebbero mantenuto la loro rappresentanza e il loro peso, mentre invece oggi rischiano di non contare nulla né alla Camera, né al Senato.
Il dibattito sul referendum ci dà la possibilità di chiederci quali siano oggi il compito, la missione e il valore della rappresentanza. Non lo si può fare di certo se si parte da un pregiudizio secondo cui si può sostituire l’opera dei parlamentari semplicemente aiutandosi con la tecnologia. La rappresentatività è entrata in crisi proprio con la convinzione che sia inutile la partecipazione ai processi decisionali, con la credenza che la democrazia possa essere solo diretta, senza corpi intermedi, e concretizzabile nell’espressione della propria opinione, non mediata, attraverso una piattaforma digitale. Qualcuno ha scoperto che il lavoro da casa potrebbe anche essere intelligente, perché non il voto da remoto? Del resto, qualcun altro ci ha spiegato che la politica è finita perché non sceglie i fini e questo ruolo è ampiamente acquisito dalla tecnica. Questione ben più grave, che nulla a che fare col numero dei parlamentari.
Per chi vive di queste convinzioni la politica è finita da tempo. Un Parlamento, mai come prima chiamato a ratificare scelte già prese, assente dal dibattito su come affrontare quella che qualcuno ha definito la crisi più grave dal dopoguerra ad oggi, anche se ridotto nei suoi ranghi, non interessa a nessuno. Ma è riducendone il numero dei componenti che – come asserisce qualcuno – gli si ridarà centralità? No, non sarà così. Come si illude, o finge di illudersi, chi dice che questa riforma sarà il viatico per approvarne altre. Resteranno tutte al palo finché il ruolo dei leader sarà solo quello di organizzatori di tifoserie, ciò di cui non abbiamo bisogno, anziché quello di costruttori di idee e proposte.
A fronte di un centinaio di miliardi di debito che il Paese si assume – e che lascerà sulle spalle dei più giovani – per far fronte all’attuale crisi, saremo chiamati a votare su di una non-riforma dell’assetto istituzionale che porterà, secondo le stime più ottimistiche, a una cinquantina di milioni di risparmio. Un taglio di rappresentanza senza un disegno chiaro delle istituzioni che vogliamo costruire e di come vogliamo farle funzionare. Che dire allora? Meglio di no.
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