Una delle questioni che il dibattito sulla futura legge elettorale dovrà affrontare è quali saranno le modalità di scelta dei parlamentari da eleggere. L’acceso dibattito appena avviato dimostra quanto la riforma sia considerata rilevante da un elettorato palesemente insofferente verso le attuali liste bloccate. Sono convinto che la pessima immagine dei parlamentari sia in parte imputabile ai media che preferiscono dare risalto agli aspetti più deteriori della politica-spettacolo (salvo poi lamentarsene), anziché all’oscuro lavoro svolto dalla maggioranza di essi. Ciò nondimeno, non c’è dubbio che i partiti politici non siano stati all’altezza del senso di responsabilità istituzionale che la selezione di candidature “bloccate” richiede. Da qui l’opportunità di accantonare tali liste, introdotte nel 2005 dalla legge Calderoli, non perché di per sé contrarie a Costituzione, come ha chiarito la Corte costituzionale nelle due sentenze nn. 1/2014 e 35/2017, ma perché hanno contribuito ad allargare il solco tra elettori ed eletti.

Per andare dove? Scartata la soluzione di sorteggiare gli eletti, per la decisiva obiezione che avremmo soggetti che non sarebbero chiamati a rispondere del potere politico loro attribuito, è tornata in auge la proposta di reintrodurre il voto di preferenza. Evidentemente un paese senza memoria ha dimenticato le ragioni che indussero la stragrande maggioranza degli elettori prima a ridurre, poi ad abrogare le preferenze nei referendum elettorali del 1991 e del 1993. Ragioni che sono vieppiù oggi valide. Difatti, il voto di preferenza: aumenta i costi (talora nascosti e quindi illeciti) delle campagne elettorali, tanto più in circoscrizioni elettorali estese come quelle risultate dalla recente riduzione del numero dei parlamentari; alimenta i rischi di corruzione e di voto di scambio (specie nelle regioni meridionali dove non a caso ad esso si fa maggiore ricorso); aumenta la competizione all’interno dei partiti, degradandoli a meri comitati elettorali e contribuendo così a renderli ancora più disgregati. Infine, rimane indimostrato che con le preferenze si abbia di per sé un miglioramento della classe politica. Anzi, i risultati anche di queste ultime elezioni regionali dimostrano la diffusione del peggiore clientelismo politico, con “signori delle preferenze” che, specie se incandidabili, riescono a spostare tranquillamente i loro pacchetti di voti a parenti e sodali.

E allora dobbiamo tenerci le liste bloccate? No. C’è una terza via: il collegio uninominale. Difatti, la presentazione di un solo candidato per partito in una parte circoscritta di territorio: permette di avvicinare gli elettori agli eletti, specie se espressione di quella zona anziché “paracadutati”; impone ai partiti una migliore selezione delle candidature; annulla la competizione all’interno del partito, con conseguente riduzione delle spese elettorali dei candidati. Si obietterà: i collegi uninominali sono propri di formule elettorali maggioritarie (a turno unico o doppio) per cui sono incompatibili con l’attuale tendenza verso l’introduzione di una formula elettorale interamente proporzionale. Errore. Non è vero che il collegio uninominale si debba necessariamente abbinare al maggioritario. Esso, infatti, può essere applicato anche a formule proporzionali. È stato così per l’elezione del Senato dal 1948 al 1993 e per l’elezione dei consigli provinciali ed è ora così, in Germania, per l’elezione della camera politica (Bundestag).

Certo, si tratta di sistemi elettorali diversi, per specifiche tecniche che qui non vale la pena approfondire, ma accomunati dal fatto di conciliare la ripartizione proporzionale dei seggi con la possibilità per l’elettore di scegliere direttamente il candidato, anziché essere costretto ad accettare in blocco tutti quelli candidati dai partiti. Nuova obiezione: ma così i candidati saranno sempre scelti dai partiti! Vero, ma, a parte che lo stesso accadrebbe con il voto di preferenza, il collegio uninominale impone al partito di selezionare in modo più rigoroso quel solo candidato con cui si presenta e s’identifica nel collegio uninominale, anziché permettere di rinunciare a tale sua essenziale funzione costituzionale, lasciandola (talora pilatescamente) nelle mani degli elettori.

Piuttosto, se si vuole affrontare il problema della selezione delle candidature in modo serio e completo, si deve intervenire legislativamente perché essa sia il risultato di un processo democratico all’interno delle forze politiche, anziché il frutto di metodi opachi e autoritari. È l’annoso problema della democrazia all’interno dei partiti che va risolto sviluppando quel “metodo democratico” cui fa riferimento l’art. 49 Cost. in modo più incisivo di quanto finora accaduto (d.l. 149/2013). Ma questa è un’altra storia, su cui presto ritorneremo.