Nelle ore in cui scriviamo si sta procedendo allo scrutinio delle schede per il turno di elezioni regionali più particolare da quando sono nate le Regioni. Si tratta di elezioni pur sempre politiche e che da sempre vengono considerate un test per verificare la salute dei governi nazionali. Per quanto si votasse soltanto in sette Regioni, però, mai una tornata si era svolta in uno stato di emergenza e per di più in abbinamento a un referendum costituzionale. Da tempo, inoltre, con l’elezione diretta dei presidenti si era rafforzata la tendenza a confermare i presidenti uscenti. Tuttavia, nel turno attuale, ogni pronostico formulato prima del lockdown, o quasi è saltato. I tempi particolarissimi che viviamo hanno consentito rimonte impensabili e crolli di popolarità repentini.

Del resto, tra le qualità del politico machiavellico v’è la capacità di trarre sempre il meglio della circostanze e il Covid-19 è stato un rimescolatore di fattori. Considerando che in alcune regioni i presidenti uscenti (in Toscana, per esempio) non erano ricandidabili e che, eccezionalmente, un presidente uscente non era stato ricandidato (pare contro il suo volere: parliamo del centrosinistra nelle Marche) la situazione che si presenta a poche ore dall’apertura delle urne vede un misto di fattori partitici e fattori più occasionali all’opera. Tra i primi senz’altro l’importante variabile dell’accordo sui territori tra Partito Democratico e, da un lato, il Movimento Cinque Stelle e, dall’altro e all’opposto, Italia Viva. Così, oltre che per performance non esaltanti degli uscenti (uno non ricandidabile, l’altro – Emiliano – ricandidato) si spiega anche il fatto che le partite siano aperte. Ben diversa è stata la sorte di Vincenzo De Luca, per lungo tempo in procinto di essere sacrificato dai vertici del suo partito sull’altare di un accordo con il M5S in quella Campania che resta pur sempre una regione strategica per le prossime elezioni.

Di fronte, allora, a un dato di partenza di una grande forza delle destre nei sondaggi, due presidenti che si riconosce diffusamente aver lavorato bene, come Giovanni Toti e Luca Zaia, si avviano a una vittoria scontata da tutte le anticipazioni, mentre in una regione dove in teoria i Cinquestelle sono fortissimi, De Luca, senza il loro appoggio, viene ormai dato in netto, anzi nettissimo, vantaggio sugli sfidanti. Forse sottostimata la sua performance un anno fa (quando prevalevano gli umori populisti e sovranisti) il tono imperioso fatto valere durante il lockdown gli ha forse restituito un giudizio da parte degli elettori più equanime. In questi casi, però, la forza e la credibilità del candidato sfidante sono importanti. Se De Luca fosse stato contrastato durante il lockdown da un avversario già candidato da un centrodestra unito, e magari da una forza fresca, non vi sarebbe stato un soliloquio e certe criticità della gestione (se si vuole anche solo frutto di ritardi atavici) sarebbero state più efficacemente presenti all’elettore. Per questo forse Stefano Caldoro, candidato del centrodestra campano e già presidente della Regione, non era il candidato più idoneo. Ma si sa che De Luca, oltre a essere un buon amministratore, è straordinariamente determinato e quel che basta fortunato e così non è stato.

Nelle elezioni regionali, peraltro, il sistema e il tipo di voto anticipano in parte il giudizio dell’elettore mediante le offerte elettorali: più liste presenti e più hai possibilità di vincere ma – attenzione – è la costruzione delle liste che, attraverso effetti band wagon, dimostra la popolarità del candidati. Il ceto politico va lì dove si vince. Al Sud il fenomeno è parossistico, con la scheda che gli elettori sono stati costretti a ripiegare come fosse un lenzuolo a una piazza. Infine va notato che, dopo il precedente non fortunatissimo di Pierluigi Bersani, ormai i presidenti di Regione – nel passato spesso annientati da inchieste giudiziarie – sono protagonisti del dibattito nazionale. Valgano i nomi di Toti, Zaia e, da oggi, di De Luca, che si vanno ad aggiungere a Stefano Bonaccini e a Nicola Zingaretti. Per offrire nomi di livello alla politica nazionale, l’elezione diretta regionale ha impiegato tempo, tanto che a lungo i sindaci delle grandi città hanno goduto di maggiore popolarità e slancio dei presidenti di Regione.

La Regione è un ente ostico per definizione, politico (fa legislazione) ma non nazionale, centrato sull’attività di programmazione per mezzo di leggi e atti di varia natura, ma in realtà piegato alla gestione. Una programmazione e una gestione, però, lontane dagli occhi del cittadino che ha difficoltà a distinguere le responsabilità dei diversi livelli di governo, per esempio nel campo dei servizi pubblici, e ha la certezza dell’azione del sindaco davanti agli occhi. E tuttavia è la Regione l’ente a cui i sindaci guardano soprattutto per l’erogazione di finanziamenti (per lo più europei) per i loro progetti. Se le politiche attive del lavoro sono disperse, in questo Paese e – peggio che peggio – nel Mezzogiorno, è semmai alla qualità della sanità, materia concorrente con lo Stato, che i cittadini guardano quando votano. L’identità sociale di una regione conta, ma le Regioni possono fare molto anche per lo sviluppo. Vedremo.