Il 30esimo anniversario della morte
Chi era Pier Vittorio Tondelli, lo scrittore capace di rompere gli schemi sempre sull’orlo della censura
«E io devo lavorare per mantenerti a scrivere quelle porcate? Finirai come Pasolini». Quella collerica reazione di Marta Bartoli, la “contadina altissima”, fervente cattolica e madre di Pier Vittorio Tondelli, che in lacrime leggeva le prime pagine di Altri libertini, sarebbe poi culminata in uno svenimento in teatro nel momento in cui si svolgeva la scena di massima tensione di Postoristoro, nell’adattamento teatrale dell’esordio tondelliano: l’iniezione di eroina sul pene di uno dei protagonisti. La lapidaria sentenza materna era ai tempi del tutto inconsapevole di aver di fatto preconizzato gli analoghi destini dei due scrittori, non nella tragica e ancora misteriosa morte prematura di Pasolini, bensì nel comune imporsi sulla scena letteraria mediante lo scandalo e contro la legge.
Tondelli non era ancora nato quando i processi per atti osceni e corruzione di minore valsero a Pasolini l’espulsione dal Pci, ma avrebbe ben presto ravvisato quella scissione tra l’adesione razionale all’ideologia comunista e la rispettiva presa di distanza emotiva da questa, nella poetica dello scandalo sintetizzata dalla celebre terzina de Le ceneri di Gramsci: «Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere». La pietra di inciampo tondelliana aveva radici più personali, generazionali, che politico-ideologiche. Altri libertini era un libro aggressivo, sperimentale ma non neoavanguardista, avverso al canone delle belle lettere, osceno rispetto alla morale cattolica, e i suoi personaggi accusati di essere campioni di abulia, di disimpegno e troppo interessati al proprio ombelico. Tuttavia, l’autore stesso interpretava quell’aggressività come il feroce desiderio personale dei timidi che, per comunicare con il mondo, ha bisogno di passare attraverso un gran clamore. Appartenente al «popolo alto dei camminatori» come il Boccalone dell’amico Enrico Palandri e il Gio(f)anni del Lunario del paradiso di Gianni Celati, suo professore al Dams, Tondelli passeggiava tra i portici di Bologna nel ’77, quando sui muri nei pressi di via Zamboni comparivano le sagaci e ingiuriose scritte nei confronti di Umberto Eco: «Ecò, coiffer pur dames», mentre l’11 marzo Francesco Lorusso veniva assassinato da un carabiniere di leva in via Mascarella 37. Un ragazzo altissimo ma timido, così ridondantemente definito dalla critica giornalistica di quegli anni, «un paradosso», come se per loro quella statura implicasse anche una certa spavalderia di stare al mondo.
Al contrario, l’apprendistato bolognese di Tondelli, tra gli esperimenti didattici di Scabia e Celati, la lezione sullo Strutturalismo, le assemblee e le prime frequentazioni di locali gay, spingeva sull’ostinata inadeguatezza derivatagli dalle radici contadine, quel sentimento altalenante tra la repulsione e l’orgoglio della sua cultura provinciale e piccolo-borghese, impastata di televisione, cinema e tanta radio. «Ci stavo di merda, mi sentivo il più imbecille di tutti. Ero sempre in paranoia, due maroni…», eppure alla «morte civile ed erotica e intellettuale e desiderante» nella natia cittadina di Correggio a Reggio Emilia, che affratellava Tondelli al personaggio dell’episodio Viaggio in Altri libertini, le grandi città di Bologna, Firenze e poi Milano garantivano l’anonimato alle sue alterità e maggiori vie di fuga alla tristezza. Quando «veniva su la scoglionatura», Tondelli si metteva in viaggio sul suo «ronzino scappottato» su e giù Fra la via Emilia e il West – la folgorazione per Guccini avvenne sui banchi del liceo, «la colonna sonora di quel mio passato irrequieto e provinciale», arrivando a intercettare un «Guccini allo stato puro» addirittura nei versi di Alceo e di Orazio – e poi i soggiorni in Tunisia, Marocco, Amsterdam e Austria.
Il Viaggiatore solitario che pativa la scomodità della sua solitudine, quella debolezza pasoliniana implicata dalla forza della sua indipendenza, e difesa da Leo, il protagonista di Camere separate, nell’immagine tutta tondelliana di una persona monca, appendice di sé stessa. Nell’ultimo romanzo, pubblicato nel 1990, Leo è infatti obbligato a rivolgersi costantemente agli altri passeggeri per chiedere loro di tenere d’occhio i suoi bagagli prima di recarsi al ristorante, dove la sua solitudine apparirà ancora più ridicola e fastidiosa a un tavolo per due ridotto alla sua singola compagnia. Tondelli viaggiatore per cimiteri, vacanze mortuarie riservate solo agli spiriti eletti, per recarsi sulle tombe dei propri miti, Ingeborg Bachmann e W.H. Auden, dove «adageremo un fiore o verseremo champagne in segno di perenne devozione e massimo onore». Parlando di miti, l’illuminazione sulle pagine del primo Arbasino, quello delle Piccole vacanze e soprattutto dell’Anonimo lombardo, gli procurò non poco imbarazzo. Tondelli lo citò nei Titoli di coda della prima edizione di Altri libertini come riconoscimento del proprio debito formativo, specie per la poetica del “sale sulla ferita”, dell’andare dentro le storie senza alcuna reticenza per raccontare tutto il raccontabile, per quella capacità squisitamente arbasiniana di inventare sulla pagina il sound del linguaggio parlato e che Paolo Milano aveva definito sull’Espresso con la puntuale espressione del «magnetofono ben temperato».
Pare che Arbasino non gradì questo accostamento e il giovane Tondelli rimediò con una lettera di eleganti scuse che ha tutta l’aria, i toni e i termini di un amante respinto: «Questo libro non nasce ovviamente dal nulla ma è stato maturato su alcuni testi di cui non ho mai nascosto il mio profondo innamoramento». Diversi anni passarono dalla morte di Tondelli quando lo stesso Arbasino rimpianse quel contatto, arrivando a dedicargli uno dei suoi Ritratti italiani: «Ogni mancato incontro con Tondelli – fonte di lunghi e tardivi rimpianti – è il frutto di un eccesso di delicatezza, reciproca e simmetrica». “Perché facciamo ancora i conti con Tondelli” recitava il felice titolo di un articolo di Giorgio Fontana, uscito su Internazionale qualche anno fa. Ci facciamo ancora i conti perché quel baby-boomer di Tondelli – termine che detestava, in luogo del quale aveva coniato la locuzione «essere nato nel clima delle vacche grasse e della speranza» – continua ad essere ristampato e letto con voracità ed entusiasmo dalle nuove generazioni e insegnato nella sua Alma Mater Studiorum; i convegni dedicatigli continuano ad accogliere orde di appassionati lettori e studiosi; le tesi di laurea e di dottorato in Italia e all’estero vengono pubblicate ogni anno e rinnovano continuamente le categorie interpretative della sua opera, come nel caso del meritevole studio condotto da Olga Campofreda alla University College di Londra e confluito in Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli (Mimesis, 2020), dove figurano ben due inediti tondelliani ritrovati negli archivi dell’omonimo Centro di documentazione a Correggio.
L’ultimo uscito in casa Bompiani è intitolato eloquentemente Viaggiatore solitario. Interviste e conversazioni 1980-1991, un’encomiabile operazione di recupero e collezione di interviste e conversazioni, alcune già edite ne Il mestiere di scrittore, per restituire il dialogo che Tondelli ha intrattenuto con i critici e giornalisti del suo tempo, a cura di Fulvio Panzeri, già suo curatore testamentario e deceduto poco dopo l’uscita del volume. Recentemente, proprio il fu-ciellino-Panzeri è stato accusato dallo studioso Sciltian Gastaldi in Tondelli: scrittore totale, di essere stato il mandante di quell’operazione di borghesizzazione eteronormativa volta alla redenzione del figliol prodigo queer che, insieme al fratello Giulio Tondelli e all’accademico gesuita Antonio Spadaro, aveva lo scopo di rendere più digeribile il corpus tondelliano, conformandolo a quel moralismo cattolico che imperversa ancora a Correggio, dove la morte di Aids di Tondelli continua a essere celata sotto le più rassicuranti spoglie di un collasso cardio-circolatorio. Il profilo del Tondelli con cui facciamo i conti oggi è dunque quello di un autore strattonato, con un’eredità manipolata nella coatta operazione di revisionismo di chi ne vorrebbe reprimere le istanze sessuali più sovversive.
Se ogni taglio è politica, è sorprendente che si sia tentato di epurare la sua scrittura mediante bieche censure e cassature, i nascondimenti dalla sua biblioteca, e coprire l’ultimo Tondelli, quello terminale, di un’aura di cristianità piccolo-borghese per redimere con una certa malcelata sufficienza il Manifesto di una generazione di omosessuali. È appunto sorprendente che si sia tentato di fare tutto ciò, poiché è stato lo stesso Tondelli a tradirli: «Scrivere è un modo di fingere che le censure non esistano. È un’attività molto legata alla sessualità, nel senso proprio del desiderio. Scrivo una storia, parlo di sentimenti per cui esiste un appagamento mentale, quasi una sublimazione dell’eros». Era ben consapevole di quanto fosse pericoloso parlare della propria sessualità, pur sublimandola nelle maschere di Leo, Thomas, Aelred, le Splash di Reggio, perché ciò avrebbe significato «esibire le proprie ferite o il proprio dolore», esporsi, gettare il proprio corpo nella lotta. E godere di farsi vedere nudo.
In quelle pagine sporche, materiche, che lasciano intravedere il gesto stesso della sua scrittura erotica ed emotiva, Tondelli aveva fatto convergere tutta la sua solitudine, la duplice diversità di scrittore e di omosessuale. Oggi, a trent’anni dalla sua morte, la tanto odiata e tanto amata Correggio, tra targhe, centri di studio e giornate commemorative, ha dedicato al suo Viaggiatore solitario un piazzale, che è a tutti gli effetti, tristemente, un parcheggio: una stasi.
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