Doveva essere il governo che riaffermava il primato della politica sui tecnici, ma così non sarà. Giorgia Meloni, che si era tenuta fuori dai governi di unità nazionale indossando i panni della leader illibata e catturando le simpatie dell’elettorato proprio per questa sua candida promessa di donna tutta d’un pezzo, alla fine anche lei sarà costretta a chiamare gli specialisti per mantenere a galla il Paese e gettare un salvagente al centrodestra per farlo rimanere in superficie ancor prima di essersi resi conto di aver fatto un frittata mandando a casa, prima del tempo, il governo di Mario Draghi.

Se in Europa – ai comizi di Vox Giorgia Meloni tenta di riaffermerà i valori e i principi che hanno ispirato la sua ascesa al ruolo di premier; in Italia poi si va a ripetizioni da Mario Draghi per comporre la sua squadra di governo. Il tutto, essendo schiacciata tra le richieste di Salvini e Berlusconi, che alla prima occasione utile – il voto per il presidente del Senato – ha fatto sentire la propria voce. E se non fosse stato per l’aiutino arrivato dalle opposizione, la poltrona di Ignazio La Russa sarebbe ancora traballante.

A chi fa politica, la situazione era già fin troppo chiara prima del voto. Agli analisti del giorno dopo, un po’ meno. Pazienza. I sei tecnici, ai quali era stata offerta la poltrona di ministro dell’Economia, hanno risposto picche. Un po’ perché sarà una bella gatta da pelare un po’ forse, perché le idee di questa destra non sono di certo la ricetta giusta per aggiustare i conti. Del resto, prima del voto, fu proprio la destra a invocare l’aiuto di super-Mario. Prima con il senatore Maurizio Gasparri (“Il governo deve agire subito sull’emergenza bollette. Non c’è tempo da perdere”) e poi con il leader della Lega, Matteo Salvini (“dare mandato pieno al Governo in carica per fare quello che ha fatto Macron”).

Intanto a dire no a Giorgia è proprio uno di quei nomi soffiati all’orecchio della Meloni da Draghi: Fabio Panetta. Economista e banchiere, già Direttore generale della Banca d’Italia e membro del Comitato esecutivo della Banca Centrale Europea. Un cordiale no, anche perché c’è più entusiasmo a continuare una brillante carriera (Panetta ha 63 anni) che avere a che fare con questo Governo. Ma Giorgia si era rivolta anche a un altro tecnico draghiano, l’ex ministro Daniele Franco, ma anche lui ha declinato l’invito malgrado fu proprio l’ex premier a sottolineare che lo avrebbe visto bene “in qualunque altro governo”. Ma in fila ci sono anche i no di Dario Scannapieco, il direttore generale di Cassa depositi e prestiti; Vittorio Grilli, già nell’ufficio di via XX settembre fra il 2012 e il 2013 con Monti e poi Domenico Siniscalco, con Berlusconi fra il 2004 e il 2005. Un no arriva anche da Gaetano Miccichè, presidente della divisione Imi del gruppo Intesa Sanpaolo.

Gli altri ministeri, in questo momento storico, sembrano un contorno, ma non lo sono. Le donne restano l’amore del Cavaliere che proprio sulla Ronzulli fuori dal Consiglio dei ministri, ha messo un veto sull’elezione di La Russa. Un capriccio? Forse. Anche perché Berlusconi punta, più di ogni altra cosa, alla Giustizia per abbattere definitivamente quella Severino che lo potrebbe mettere fuori dai banchi del Senato se giungesse una condanna definitiva nel “Ruby ter”. La lega, dal canto suo, fa spallucce su Giorgetti – chiesto dalla Meloni – ma pone un veto sugli Interni a Salvini o a un suo colonnello, Matteo Piantedosi, suo ex capo di gabinetto. E poi invoca per se il ministero per le Infrastrutture. Che se andasse così sarebbe un bel colpo per un partito alla deriva. Insomma, se gli sherpa del centrodestra si muovono in direzione ostinata e contraria alla Meloni, per garantirsi una vivibilità politica, per Giorgia, il compito di raddrizzare la barca, lo può svolgere solo se si affiderà a tecnici di valore e non alla sua politica.