“Ricordo quando ero piccolino, mio padre mi portava al Sinigaglia, guardando quella gente ho capito, perché è così importante questa maglia!”, recita uno dei cori storici della tifoseria lariana e c’era una volta un bambino che, quando ancora le partite si giocavano di domenica, nel novembre del 1973 alle 14.30, varcava per la prima volta i cancelli dello stadio comasco. Como-Taranto, Serie B: risultato finale 3-1. Erano gli anni di Pippo Marchioro in panchina, poi affiancato da Osvaldo Bagnoli, con Giancarlo Beltrami come direttore sportivo. In campo c’erano Scanziani, Silvano Fontolan, Marco Tardelli. Ma il mio idolo era Antonio Rigamonti, il portiere che tirava i rigori: vederlo attraversare il campo era ogni volta un’emozione. Ne segnò sei in carriera: tre in Serie A, uno perfino a San Siro contro il Milan.

Su quegli spalti, prima in tribuna con tutta la famiglia, poi in Curva Monumento a est — quando ancora c’era il velodromo — e infine nella Curva Azzurra a ovest, con un trasferimento di settore non facile da digerire. Erano gli anni dei primi stranieri: il primo fu Dieter Mirnegg, un anonimo terzino austriaco; poi arrivò Dan Corneliusson, e poi tanti campioni che hanno indossato la maglia biancoblu. Stefano Borgonovo, Giuliano Giuliani, Andrea Fortunato: tre nomi che si pronunciano ancora con un nodo alla gola, celebrati da Marino Bartoletti tra i convocati della sua meravigliosa Partita degli Dei. Stagioni che evocano nomi memorabili: Vierchowod, Matteoli, Centi, Simone, Fusi, la coppia del gol Cavagnetto e Nicoletti, Volpi, Galia, Bruno, Tempestilli e ancora Zambrotta, campione del mondo 2006. Giganti che, per un periodo magico, hanno fatto sembrare il Como una squadra da sogno che sfidava grandi campioni, come Paulo Roberto Falcao, che esordì nel nostro campionato proprio in riva al Lario, io c‘ero, arbitro Michelotti, esordio anche dello Zar e autogol di Volpi 0-1 e poi Diego Armando Maradona, Zico e tanti altri fuoriclasse.

Tra le partite più epiche, una vittoria sulla Juventus in Coppa Italia, sotto la neve, quando il Sinigaglia si trasformò in una cartolina natalizia e noi tifosi andammo in campo a spalare per evitare il rinvio. Cross di Dirceu, uscita a vuoto di Stefano Tacconi e Corneliusson che appoggia in rete per l’1-0 finale. Ma il momento che ancora mi dà i brividi è la semifinale di Coppa Italia contro la Sampdoria: 1-1 all’andata a Marassi, con il gol in trasferta che valeva ancora doppio, e poi, al ritorno, il vantaggio di Albiero all’85’. Sembrava fatta, ma la Sampdoria pareggia subito, assist di Roberto Mancini e gol di Trevor Francis, e poi al 7’ dei supplementari arriva il rigore, il caos, l’accendino lanciato in campo che colpisce in testa l’arbitro Redini e la sconfitta a tavolino. Svanì la finale con la Roma, e con essa un pezzo di sogno.Cinquant’anni di Como significano anche allenatori che hanno fatto la storia: Marchioro, Bianchi (che poi vinse lo scudetto a Napoli), Bagnoli, Marchesi, Mondonico. Uomini che per altri sono solo nomi, ma per noi rappresentano pagine di una storia infinita. Eppure, prima degli Hartono, ne abbiamo viste di tutti i colori.

Dai presidenti col “grande progetto” finito in tribunale, alle estati passate a sperare più nella fidejussione che nei nuovi acquisti. Dai tempi di Enrico Preziosi, che sembrava dovesse portarci in Europa ma poi vendette tutti e se ne andò a Genova, fino alla meteora di Akosua Puni Essien, la signora ghanese accolta come salvatrice e sparita senza lasciare traccia. Vent’anni di montagne russe, in tutte le serie, mentre noi tifosi continuavamo a cantare “noi che d’estate siam qua sotto il sole e d’inverno tra il gelo e la neve”, in quello stadio che Gianni Brera definì “il più bello del mondo” per la sua posizione unica, costruito nel 1927 per le celebrazioni voltiane. Oggi, in vista del bicentenario del 2027, c’è la possibilità concreta di vederlo rinascere, grazie a un progetto ambizioso della nuova proprietà indonesiana, che cerca di superare vincoli urbanistici e resistenze legate alla tutela.

E così eccoci qui con Robert Budi Hartono e Michael Bambang Hartono, due imprenditori indonesiani tra i più ricchi del mondo, con oltre 50 miliardi di dollari di patrimonio. Fondatori del gruppo Djarum, hanno costruito un impero che va dal tabacco all’elettronica con Polytron (oggi anche nell’auto elettrica) fino a Tiket.com, la più importante OTA indonesiana. Ma c’è una ragione ancora più profonda per cui i fratelli Hartono hanno scelto proprio Como. Non sono venuti semplicemente per acquistare un club di calcio: sono venuti perché hanno capito che Como è – ed è sempre stato – un brand internazionale. Hanno intravisto nel nome “Como” un potenziale enorme: una città conosciuta in tutto il mondo, sinonimo di bellezza, eleganza, stile di vita unico. E hanno deciso di legare indissolubilmente questo nome alla loro impresa sportiva.

Tutta la strategia della nuova proprietà si fonda su questa visione: il Como 1907 non è soltanto una squadra di calcio, ma un’identità capace di generare valore su scala globale, collegando turismo, sport, cultura ed economia in un ecosistema integrato. I fratelli Hartono non hanno semplicemente comprato una squadra: hanno abbracciato un’identità facendo propri i motti e le tradizioni, il payoff in dialetto “Semm cumasch!” (siamo comaschi), i sapori locali come la birra artigianale “La Comasca”, le iniziative che fanno comunità con oltre 300 negozi convenzionati che distribuiscono il merchandising e l’omaggio di un pigiamino del Como a tutti i neonati sul territorio. Tanti investimenti nel calcio giovanile e femminile e tanta beneficenza a iniziative locali come per esempio in favore di “Quelli che…con LUCA”, promossa dai “Pesi Massimi” (uno dei gruppi di tifosi storici a cui sono associato) a favore della ricerca sulla leucemia, e a cui la Società ha destinato gli introiti della vendita della terza maglia e gli incassi di 3 partite casalinghe.

Il nuovo Sinigaglia

Per la prima volta qualcuno ha capito che il Como non è solo una squadra, ma un simbolo in grado di portare il nome della città nel mondo. Un’operazione di marketing territoriale che nemmeno i più visionari amministratori locali avevano osato immaginare. La proprietà ha già investito oltre 150 milioni di euro, costruendo anche un centro sportivo moderno, e quest’anno altri 100 già a metà del mercato calciatori (fanno 500 miliardi di vecchie lire). Ma al centro di questa sfida c’è sempre lui: il Sinigaglia, luogo di ricordi e speranze, pronto a rinascere come simbolo di una nuova bellezza, che è la cifra anche dello stile di gioco che Fàbregas sta sviluppando con i suoi giovani talenti. Il progetto del nuovo stadio è infatti la ciliegina sulla torta di questa rivoluzione. Non si tratta di abbattere e ricostruire quattro gradoni fatiscenti, ma di ripensare completamente un pezzo di città. Dal vicino giardino pubblico fino alla passeggiata di Villa Olmo, tutta l’area verrà riqualificata dal nuovo stadio, un hub multifunzionale aperto 365 giorni all’anno. E noi, che per anni abbiamo sopportato in silenzio il degrado di uno stadio indecoroso per una città che vive di bellezza, finalmente possiamo tornare a sognare in grande.

Ma se possiamo sperare che il sogno duri più a lungo, è anche grazie al presidente Mirwan Suwarso, a cui penso che andrebbe conferita la cittadinanza onoraria, perché ormai l’è propi un cumasch tra i comaschi: uno di noi. Sarebbe il giusto riconoscimento simbolico per chi ha saputo così bene interpretare un modello di gestione, rispettoso del territorio e coraggioso nelle sue ambizioni. Perché il Como 1907, pur essendo formalmente un’entità privata, in realtà è un patrimonio della città e dei suoi tifosi. Un simbolo che possiede un valore emotivo e culturale ben al di là della sfera sportiva e forse, questa volta il sogno di vedere il Como sui grandi palcoscenici europei, in uno stadio degno delle parole di Gianni Brera, è davvero più vicino di quanto abbiamo mai osato immaginare.

Edoardo Colombo

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