L’uranio impoverito, contenuto soprattutto nei missili anticarro, ha provocato solo fra i militari italiani circa 300 morti di tumore e oltre 8000 ammalati gravi. Il nesso di causalità fra l’esposizione all’uranio impoverito e le patologie tumorali è ormai provato da più di 300 sentenze emesse da decine di tribunali. In Serbia, un tempo uno dei paesi più salubri al mondo, i casi di tumore fra la popolazione, dopo il conflitto nei Balcani in cui la Nato utilizzò in maniera massiccia i proiettili con l’uranio impoverito, crescono di 40mila all’anno. Non sono disponibili i dati per l’Iraq e per l’Afghanistan, gli altri due paesi dove si è fatto in questi anni impiego su larga scala di tale munizionamento. Una strage silenziosa, di cui nessuno parla, destinata a numeri ancora più elevati se la Nato decidesse di voler bombardare le truppe russe in Ucraina con i missili all’uranio impoverito.

Uno dei massimi esperti di questa materia è l’avvocato romano Angelo Fiore Tartaglia che da oltre 20 anni segue le cause risarcitorie dei soldati italiani che, dopo essere stati in missione all’estero dove erano state utilizzate queste armi micidiali, tornando in patria hanno scoperto di avere un tumore. I primi casi risalgono alla fine del 1999 e riguardarono i soldati che avevano prestato in servizio in Kosovo. Poi, appunto, in Iraq ed Afghanistan. Emblematico fu il caso della caserma Tito Barak di Sarajevo, ex sede dell’Accademia militare bosniaca, uno degli obiettivi maggiormente colpiti dal munizionamento all’uranio impoverito della Nato. Proprio tra i militari delle forze alleate (la maggior parte erano italiani) che alloggiarono alla Tito Barak fu riscontrata la più alta concentrazione di malattie e di decessi causati da linfomi. In particolare il linfoma di Hodgkin. La prima vittima di quella che verrà chiamata la “sindrome dei Balcani” sarà il caporale maggiore Salvatore Vacca della Brigata Sassari.

All’inizio la Cassazione vietava di fare cause per risarcimento del danno ai militari che si erano ammalati, ritenendo che la decisione di impiegare le truppe all’estero fosse “insindacabile”. La giurisprudenza, poi, ha cambiato indirizzo ritenendo responsabile il datore di lavoro del militare, quindi il Ministero della Difesa. Ma perchè si utilizzano i proiettili all’uranio impoverito? Il motivo è molto semplice: sono molto efficaci. Quando impattano sull’obiettivo sprigionano temperature fino a 3000 gradi che sciolgono come il burro anche le corazze dei carri armati più sofisticati. Il problema è che “polverizzano”, con la conseguente dispersione di micro e nano particelle che sono classificate a rischio oncologico uno, il rischio massimo. Gli arsenali della Nato, Stati Uniti in testa, sono pieni di questi proiettili che, comunque, vengono impiegati da tutti gli eserciti i cui paesi dispongono di centrali nucleari.

L’uranio impoverito è, infatti, lo scarto della produzione energetica e il modo più rapido per smaltirlo è utilizzarlo per i fini bellici. Nei Balcani i proiettili di questo genere utilizzati hanno provocato radiazioni e dispersioni di particelle superiori di 300 volte alle bombe di Hiroshima e Nagasaki. Tornando alle vittime fra i militari italiani, la maggior parte appartengono all’Esercito e all’Arma dei Carabinieri, inizialmente impiegati sui teatri di guerra senza alcuna protezione. Eppure già negli anni Novanta esistevano documenti Nato in cui era segnalato che inalare polveri derivanti dall’esplosione di questi proiettili provocava il tumore. Per anni, però, il Ministero della difesa non non ha fatto nulla, non informando dei rischi il personale inviato in missione all’Estero. L’uranio impoverito, comunque, non provoca solo tumori: studi recenti hanno dimostrato che è in grado di interferire sul sistema nervoso centrale, causando malattie come la sclerosi multipla. La storia dovrebbe aver insegnato qualcosa.