Marcia su Roma? “Panzane stupide e inconcepibili. È verissimo che noi abbiamo parlato e parliamo di una marcia su Roma ma si tratta di una marcia del tutto spirituale, vorrei dire legalitaria”: sul Corriere della Sera del 6 ottobre il segretario del Pnf Michele Bianchi smentiva così le voci di una imminente insurrezione fascista. In realtà il più strenuo sostenitore, con Italo Balbo, dell’insurrezione, a inizio ottobre non ancora decisa, era proprio lui.

Il presidente del consiglio Facta gli credette. Il giorno dopo inviò al re un telegramma sdrammatizzante: “Parmi che situazione si presenti meno preoccupante”. In ogni caso il presidente comunicava al sovrano di aver ricevuto ampie garanzie dai vertici militari, da Diaz e Badoglio: “Assicurano che esercito malgrado innegabili simpatie verso fascisti faranno loro dovere difendere Roma”. La sottovalutazione di una possibile insurrezione delle camicie nere resterà tale sino all’ultimo, sino alla notte fatale tra il 27 e il 28 ottobre, con poche eccezioni come il ministro degli Interni Taddei e quello delle Colonie Amendola. Non solo Facta e tutti i principali esponenti dell’Italia liberale, ma anche i socialisti e i comunisti, considereranno la minaccia della marcia solo come uno strumento adoperato da Mussolini per strappare ministeri in un futuro governo destinato a “costituzionalizzare” e addomesticare il fascismo.

La partita per chi avrebbe dovuto presiedere quel governo la giocarono tutti i vecchi leader liberali, Giolitti, Nitti, Orlando, Salandra, che si definiva “fascista onorario”. Forse lo stesso Facta ebbe qualche tentazione personale, anche se in quelle settimane lavorò soprattutto per Giolitti. L’abilità di Mussolini fu intrecciare continuamente i due piani su cui si muoveva, quello dello squadrismo insurrezionale e quello della trattativa politica, senza mai far capire quale fosse davvero il suo gioco, che del resto, almeno nella prima decina di ottobre, non aveva ancora stabilito quale fosse neppure lui.

Per Cesare Rossi, allora il più stretto collaboratore del duce, la decisione della marcia Mussolini la prese tra il 6 e il 10 ottobre, sulla base di considerazioni destinate a rivelarsi lucide. Con l’antifascismo sbaragliato, esercito e guardia regia in ampia misura conniventi, Facta che “non sparerà su di noi anche se Taddei ha qualche velleità autoritaria”, i monarchici “rassicurati” dalla conversione del duce ex repubblicano, i parlamentari che “pensano soltanto a mettersi bene con noi”, Mussolini vedeva solo pochi “punti neri della situazione”: Parma, dove gli squadristi erano stati fermati dalla risposta armata degli Arditi del Popolo, il re, d’Annunzio e soprattutto gli squadristi. “I fascisti mi danno più pensiero di tutti. Sono sorti feudi personali e oligarchie di zona che bisognerà domare al fine supremo. Il sovrano è una figura enigmatica, ma ci sono molle intorno a lui che faremo funzionare”, confessò a Rossi. Per intervenire sul re contava sulla regina madre e sul duca d’Aosta, le cui simpatie per il fascismo erano note e nel caso della regina anche estreme.

Il problema principale però era D’Annunzio. Mussolini lo considerava “un inconcludente” che sarebbe stato facile manovrare. La popolarità del Vate, anche tra le stesse camicie nere era però immensa ed era proprio su di lui che i leader liberali contavano per frenare l’onda fascista. Il primo a pensare a D’Annunzio era stato Francesco Saverio Nitti, presidente del consiglio dal giugno 1919 al giugno 1920. D’Annunzio da Fiume lo aveva insultato e ridicolizzato, lo aveva ribattezzato “Cagoja”. Messo da parte l’orgoglio Nitti gli aveva scritto in agosto e il poeta, a sorpresa, aveva risposto. Un fedelissimo del Vate aveva incontrato “Cagoja”, era stato ipotizzato un percorso per arrivare a nuove elezioni e poi a un governo di unità nazionale. L’incontro tra Nitti e D’Annunzio era fissato per il 15 agosto ma pochi giorni prima il poeta precipitò da una finestra del Vittoriale, probabilmente in un boccaccesco tentativo di sedurre la sorella della sua amante Luisa Baccara. D’Annunzio era così stato fuori gioco per settimane: Nitti aveva dovuto ripiegare sulla ricerca di un contatto diretto con Mussolini.

In ottobre il “Comandante” e poeta era ancora al centro di trame, incontri, manovre. Facta puntava sulla sua presenza e sul discorso che avrebbe dovuto pronunciare a Roma il 4 novembre per le celebrazioni del Milite Ignoto, tre giorni prima della riapertura del Parlamento fissata per il 7. In quel discorso, presumibilmente di fronte a centinaia di migliaia di persone, D’Annunzio avrebbe dovuto esortare all’unità nazionale aprendo così la strada a quel governo presieduto da Giolitti e con i fascisti al suo interno che era l’obiettivo di Facta. A spingere D’Annunzio non erano solo i volponi liberali. Alceste De Ambris, ex sindacalista rivoluzionario, estensore della Carta del Carnaro, il progetto sociale della “Libera città di Fiume”, e con lui i legionari fiumani, dai quali il fascismo aveva preso tutto dalla coreografia e nulla dalla visione politica rivoluzionaria, premevano sul Vate perché si schierasse apertamente contro Mussolini. Era pronto per l’uscita a metà del mese il loro giornale, La Patria del Popolo, radicalmente antifascista.

Mussolini sapeva che D’Annunzio poteva costituire un ostacolo insormontabile. L’11 ottobre si presentò così al Vittoriale, per sondare le intenzioni del Vate: “Non vi chiedo di schierarvi con noi ma sono sicuro che non vi metterete contro questi meravigliosi giovani”. La replica dell’Immaginifico è sibillina e ambigua. Il duce lasciò Gardone senza aver raggiunto l’obiettivo. Della mediazione diplomatica si incaricò Costanzo Ciano, eroe di guerra, l’uomo della “beffa di Buccari” del febbraio 1918, quando tre motosiluranti avevano effettuato un’incursione beffarda contro la flotta austro-ungarica nella baia di Buccari. Tra gli incursori c’era anche D’Annunzio.

Ciano, fascista molto vicino ai nazionalisti e ai monarchici, riuscì a tessere la tela di un accordo. A Genova la Federazione dei Lavoratori del Mare guidata da un ex legionario dannunziano, Giuliano Giulietti, era impegnata in uno scontro durissimo con gli armatori ma anche con il sindacato fascista, la Corporazione del Mare. A sorpresa Mussolini, D’Annunzio e Giulietti firmano un protocollo d’intesa che salvò il sindacato dannunziano, scatenò le ire degli armatori, provocò un diluvio di proteste da parte dei sindacalisti in camicia nera. Mussolini, convinto di aver neutralizzato d’Annunzio, non fece una piega. Si fece negare quando gli armatori furibondi lo cercarono a Milano. Cestinò senza un commento le proteste della Corporazione del Mare.

La speranza di disinnescare la minaccia eversiva del fascismo grazie al futuro discorso di D’Annunzio sarebbe sopravvissuta ancora per qualche giorno ma Mussolini era ora certo di aver imbrigliato il Comandante. Il principale rischio era adesso che Facta forzasse la mano presentando le dimissioni anche a Parlamento chiuso e aprendo così la strada al ministero Giolitti che, tra tutte le ipotesi in campo che il duce fingeva di sostenere, era quella più temuta. Il 13 ottobre, in effetti, il ministro della Guerra Soleri era corso a Cavour per portare all’anziano statista piemontese un messaggio di Facta che lo esortava a rompere gli indugi. L’esito, comunicato subito per telefono al presidente del consiglio, sembrava positivo: “Tutto bene: lo zio ha già scritto a matita la lista dei ministri”.

Su questa base, il giorno stesso, Facta aveva proposto al governo di rassegnare le dimissioni nelle mani del re ma la proposta era stata respinta dai ministri. Due giorni dopo, in un colloquio chiesto da Bianchi, Facta assicurò al segretario del Pnf che non ci sarebbero state dimissioni e crisi extraparlamentare prima della riapertura del Parlamento, il 7 novembre. Per cogliere “l’attimo fuggente” impadronendosi dello Stato prima di vedere le loro fortune dissolversi come era successo ai socialisti due anni prima, i fascisti avevano a disposizione due o tre settimane.