Riflessioni sul 25 aprile
Da Borghese a Tangentopoli: il tic tutto italiano si chiama golpe
Arriva il 25 Aprile festa della Liberazione e dovremmo festeggiare dopo la cacciata di tedeschi e fascisti – ormai una cosa antica – la vittoria su quei due o tre colpetti di Stato con cui hanno provato a far saltare la Repubblica di cui uno sembra riuscito: quello di Tangentopoli, quando i giudici tentarono abusivamente di fare fuori il personale politico non applicando la legge ma un patto fuori dalla legge: “Tu te ne vai dalla politica e ti dimetti dopo averci detto tutto quello che sai. sarai immune da quel momento per ogni reato penale e tanti auguri. ci stai?”.
La vecchia Repubblica falcidiata e decapitata resistette come poté: ma quel che è sicuro e che una parte della magistratura tentò di sostituirsi al Parlamento sfidandolo anche in campo aperto con dichiarazioni in cui si diceva che i magistrati avrebbero dovuto supplire e quindi sostituire il potere dei rappresentanti del popolo. Quali altri tentativi di sopraffazione della legge repubblicana ci sono stati? Se ne ricordano almeno altri due perché se n’è parlato molto, Innanzitutto quello che non fu un colpo di Stato ma per dirla con le parole di Pietro Nenni, segretario del Partito socialista, un minaccioso “tintinnar di sciabole”. E poi il ridicolo tentativo della notte fra il 7 e l’8 dicembre del 1970 che aveva a capo un aristocratico soldataccio che durante la guerra stava un po’ con i fascisti ma anche un po’ con gli americani: il principe Junio Valerio Borghese con piccoli personaggi neofascisti del fronte nazionale di avanguardia nazionale.
Fu un colpetto di Stato perché mentre era in corso fu annullato dallo stesso Borghese essendo chiaro che il tentativo era sconfitto in partenza e tutti sarebbero finiti più o meno in galera sommersi dal ridicolo. Sono stato un cronista di strada col taccuino e la penna in mano e ho seguito tutti gli abortiti tentativi di far fuori la Repubblica. Quindi ne aggiungerei ancora uno che non aveva precisamente un capo riconosciuto ma che era sempre imminente e quasi pronto ma anch’esso morto prima di agire, e fu un’ombra avvolgente negli anni 70 e 80 e cioè gli anni delle Brigate Rosse e delle Brigate nere e di tutti gli infiltrati di cui poi nessuno ha più parlato. Il colpaccio era stato pensato in ambienti militari, e me ne riferiva puntualmente il mio amico colonnello dei carabinieri che poi morì inaspettatamente su un tavolo operatorio.
Per comprendere il clima, il senso e il giustificato timore di questi tentativi bisogna fare un passo indietro e risalire ai fatti di luglio del 1960 quando l’Msi decise di sfidare l’antifascismo scegliendo di svolgere a Genova il suo Congresso e provocò una sommossa non solo a Genova ma in molte altre città italiane tra cui Roma, Reggio Emilia e Palermo con molti morti uccisi dalla polizia, feriti e uno stato insurrezionale complessivo di fronte al quale lo stato sarebbe stato impotente se il partito comunista e il partito socialista non avessero raffreddato quel clima che giorno dopo giorno era andato sempre più avviandosi verso una possibile rivoluzione. Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista e con alle spalle una lunga carriera di cittadino sovietico e vicesegretario del Comintern, agì con decisione perché in Italia non si ripetesse una tragedia simile a quella della Grecia avvenuta parecchi anni prima, quando i comunisti ellenici tentarono unarivoluzione rapidamente repressa dagli inglesi. oltre che della polizia greca.
Togliatti aveva raffreddato gli animi anche nel 1948 quando ricevette quattro revolverate dallo studente Antonio Pallante il 14 luglio del 1948. In quel caso Togliatti ferito e prontamente ricoverato dette subito gli ordini necessari affinché quell’attentato non innescasse una rivolta o peggio una rivoluzione. Togliatti era ben consapevole dell’accordo di Yalta fra Churchill, Roosevelt e Stalin con cui l’Europa era stata divisa in due, e che nell’una e nell’altra parte della “cortina di ferro” che separava l’est dall’ovest non erano permesse rivoluzioni. Inoltre, in Italia si vagheggiava del leggendario “deposito di armi” accumulate nel periodo partigiano del Partito comunista che avrebbero potuto essere usate. La rivolta man mano si sedò ma ebbe le sue conseguenze.
La prima fu la sconfitta rovinosa del governo di Fernando Tambroni, uomo della sinistra democristiana che il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi aveva imposto come capo del governo, ma privo di maggioranza parlamentare. Tambroni allora decise di aprire il recinto detto “arco costituzionale” in cui era chiuso il partito neofascista Msi e chiederne i voti. Sentendosi erroneamente sdoganati, i neofascisti avevano preteso di sfidare la città di Genova, medaglia d’oro della Resistenza, convocando il loro congresso in quella città. Le conseguenze di quella scelta furono tragiche specialmente a Reggio Emilia dove il 7 luglio cinque operai iscritti al Partito comunista furono uccisi dalla polizia che usò le armi da fuoco per disperdere una manifestazione di protesta. Tambroni fu costretto alle dimissioni e fu sostituito da Amintore Fanfani. I missini rientrarono nel loro recinto e l’Italia antifascista fu comunque soddisfatta per aver dimostrato di saper impedire un ritorno dei fascisti nella vita politica.
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