"Gli elettori chiedono di avere coraggio"
Dino Amenduni: “La destra vince perché comunica chiare cornici di senso. La sinistra è troppo una cosa e l’altra, negli Usa e in Italia”
A colloquio con Amenduni, socio di Proforma, docente in comunicazione politica e gestione della reputazione
Perché vince Trump? È anche questione di framing, costruzione di chiare “cornici di senso”, per dirlo nella nostra lingua. “Un aspetto su cui la destra è parecchio avanti, rispetto a una sinistra che su questo ancora fa fatica”. È il punto di vista di Dino Amenduni, socio e consulente dell’agenzia di comunicazione Proforma, docente in comunicazione politica e gestione della reputazione.
“Cornici di senso”, cosa significa?
«Significa che il messaggio più chiaro vince, anche quando appare (a una minoranza, ora possiamo dirlo) del tutto irricevibile. Significa avere in mente un’idea di mondo, un messaggio politico forte, e saperlo sintetizzare in metafore, immagini, costruzioni linguistiche comprensibili al più alto numero di persone: “Make America Great Again” è un frame di successo, per esempio: sintetizza l’idea di Stati Uniti di Trump, che presuppone una maggiore attenzione all’economia interna e un minore coinvolgimento in politica estera, in una sola frase».
Quindi?
«Quindi forse bisogna rinunciare all’ideale illuministico e razionalistico per cui, se argomenti con dati, analisi e numeri, e con una logica stringente, alla fine gli elettori ti danno ragione».
Perché non basta?
«Perché ci sono anche le emozioni, che contano tantissimo. I processi di elaborazione delle informazioni, piaccia o non piaccia, sono legati a meccanismi emotivi più che razionali, perciò un discorso pubblico che non tiene conto delle emozioni sarà compreso solo da poche persone».
E perché le destre sarebbero in vantaggio su questo?
«Perché non hanno remore nell’usare le emozioni primarie, prime tra tutte la paura e l’ansia. E perché da decenni usano queste tecniche giornalmente, appoggiandosi sui media vicini, sugli intellettuali di area, sui think-tank, facendo anche formazione specifica a tutti i livelli su questi aspetti».
Vale anche per l’Italia?
«Certo. Da noi la destra sta dominando lo scenario mediatico allo stesso modo, ed è questa la principale risposta alla domanda: “perché Meloni non perde consenso, pur governando male?”».
La sinistra dovrebbe semplicemente imitare?
«No. Non si tratta di imitare ma si tratta di saper usare gli strumenti aggiungendo un approccio etico alla comunicazione, che quasi mai la destra ha dimostrato di voler avere. La sfida della sinistra sta nell’utilizzare le emozioni primarie, come fa la destra, ma scegliendone di completamente diverse: alla paura e alla rabbia si risponde con la speranza e la gioia. Per fare ciò non serve manipolare la realtà (uno dei grossi timori della sinistra e uno dei motivi per cui non ha voluto utilizzare fino in fondo le tecniche del framing e dello storytelling). Del resto è un modello non privo di esempi, a partire dalla campagna per il referendum contro Pinochet, nel 1988. Il dittatore aveva chiesto un’estensione dei suoi poteri, e in un primo momento la campagna pubblicitaria dei suoi oppositori faceva leva su un messaggio di paura, su ciò che sarebbe accaduto con questa estensione. Questo fino a che le leve non furono prese in mano da Eugenio Garcia, che ribaltò il meccanismo con una campagna di speranza, a cominciare dallo slogan “Chile, la alegrìa ya viene” (Cile, l’allegria sta arrivando). Ma senza andare troppo lontano, fanno scuola le trionfali elezioni di Barack Obama, non a caso impostate su parole chiave come “hope” o slogan come “yes we can”».
Bastano le belle parole?
«No, vanno inserite, appunto, in una cornice di senso. E questa cornice, nella campagna di Obama, era molto chiara: “sono il primo candidato presidente afroamericano della storia e so cosa vuol dire avere opportunità a partire da condizioni di svantaggio. Alla Casa Bianca riuscirò a dare le stesse possibilità”. Tutto questo riempiva di senso “Yes we can”».
E in Italia?
«Bisogna lavorare sull’idea politica forte, sull’identità e sul posizionamento. Il Pd italiano sconta (anche se Schlein sta cercando di superare questo limite) lo stesso problema dei democratici negli Stati Uniti: un partito largo che tiene insieme anime molto diverse e che, nel tentativo di accontentare tutti, rischia di non accontentare nessuno. Troppo di sinistra per quelli di centro, troppo di centro per quelli di sinistra».
In che senso?
«Le faccio un esempio. I diritti civili: non si è arrivati al matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma comunque si è arrivati alle unioni civili. Il risultato? Ora sono tutti scontenti: sia chi pensa che sia stato troppo poco, sia chi è contrario. Per quanto riguarda gli Usa, prendiamo la posizione dem su Israele, che ha cercato di tenere insieme il sostegno economico a Israele con la necessità di proteggere i palestinesi. Attenzione, in termini di realpolitik questo ha un senso, ma comunicato in questo modo scontenta sia gli ebrei che i palestinesi. Nel Michigan, uno degli stati in bilico, dove è presente una delle più grandi comunità arabo-americane, con tantissimi musulmani, Trump ha ottenuto il 46% contro il 32% di Kamala Harris».
Qual è, in sintesi, la lezione?
«Gli elettori chiedono di avere coraggio, di prendere posizioni chiare su cui poter decidere, come sta accadendo da noi, per esempio, con il salario minimo: tutti hanno capito come la pensano la destra e la sinistra su questo tema».
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