Nel 2025, il budget del Pentagono sarà di 850 miliardi di dollari. Esclusi i fondi supplementari per Ucraina, Taiwan e Israele. Era di 851 miliardi nel 2023 ed è di 886 miliardi nel 2024. A sua volta, l’intera industria della difesa statunitense ha chiuso il 2023 registrando un fatturato complessivo di circa 590 miliardi di dollari, per 2,2 milioni di forza lavoro.

In ambito europeo invece, i Paesi membri della Nato, lasciando fuori Stati Uniti, Canada, Regno Unito e Turchia, hanno stanziato nel loro insieme circa 345 miliardi di dollari per la difesa, rappresentando il 20% della spesa totale dell’Alleanza atlantica. Infine, l’industria della difesa europea, sempre senza il Regno Unito, ha generato nel 2023 un fatturato complessivo stimato di circa 165 miliardi di dollari, per 400mila lavoratori. Basta questo confronto per dire che non c’è partita. Un progetto di difesa comune made in Eu, in concorrenza con la straordinaria capacità di Washington di dispiegare risorse per la sua sicurezza, è improponibile. Tuttavia, l’avvento di un’Amministrazione Trump Atto II invita a una riflessione. Possibile che le promesse del presidente eletto, di disimpegno dell’impero benevolo su scala globale, provochino una scossa di orgoglio a Bruxelles?

L’incarico del tutto nuovo di Commissario Ue alla difesa, dato da Ursula von der Leyen all’ex premier lituano, Andrius Kubilius, può essere interpretato in questa maniera. A settembre, nell’eventualità, oggi realtà, di un ritorno di Trump alla Casa Bianca, von der Leyen deve aver pensato di poter cogliere l’occasione. Washington avvierà un progressivo ritiro delle sue risorse dall’Europa e degli altri quadranti di crisi. Non essendo possibile lasciare sguarniti quei posti di vedetta, si dovrà pensare ai rimpiazzi. Con altri eserciti e nuove risorse. Di conseguenza, il progetto di difesa comune europea diventerebbe concreto non tanto per buona volontà dei partner, bensì come frutto di una necessità inevitabile. Tuttavia, questo non risolve i problemi che hanno da sempre infranto i sogni di un esercito continentale. Nel 1954, il progetto di René Pelven e Alcide De Gasperi risultò essere troppo a ridosso dei due conflitti mondiali. Il passare del tempo, però, ha sciolto i rancori, ma non i nodi concettuali. Che lingua parlerebbe infatti il comandante in capo delle forze armare europee? Quale uniforme vestirebbe?

Fuori di metafora, nonostante la Nato sia un valido agglomerante e la sua dottrina un capolavoro di strategia militare e di trasformismo politico – parole da prendersi come un complimento, s’intende – la concorrenza interna è più che palese. Le differenze di prospettiva geopolitica restano. La Francia è l’unica potenza nucleare del continente. Con un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Siamo sicuri che Parigi sia disposta a rinunciare a un posizionamento internazionale di così alto prestigio per il bene e la sicurezza della casa comune a Bruxelles? Il fallimento della Comunità europea di difesa, nel 1954, per volontà italiana, ma soprattutto francese, dev’essere tenuto a mente. Può altrettanto essere che i nuovi obiettivi degli Stati Uniti spingano l’Europa non tanto sul versante militare, ma su quello industriale. Sarebbe la risposta virtuosa al piano Draghi che vede nella difesa una filiera su cui investire.

Detto questo, Kubilius nel cominciare il lavoro, dovrebbe essere preoccupato più dai paradossi che potrebbero emergere in seno all’Amministrazione Trump in fatto di sicurezza, invece che dalle rivalità interne all’Ue. Il progetto di disimpegno del prossimo inquilino alla Casa Bianca richiede impegno e tempo. Ritirare truppe e armamenti vuol dire trovarne una soluzione per dove ricollocarli. Dismettere una filiera delle proporzioni dette all’inizio significa sostanzialmente disindustrializzarla. C’è poi la variabile dei competitor al dominio americano. Come ha detto il Ministro degli Esteri, Antonio Tajani, “gli Usa non girino la testa rispetto all’Europa, al Mediterraneo e all’Africa perché sono scacchieri fondamentali”. Ed è vero. Perché andandosene, il vuoto verrebbe riempito.

In Africa, per esempio, dalla Cina. Dove è già ben posizionata. Pechino è il primo nemico commerciale degli Stati Uniti. Questo è l’unico dossier internazionale su cui Trump non vuole scendere a patti. Per forza di cose, dovrà studiare come contrastare il colosso asiatico anche sul piano militare. A Taiwan. Ma perché non sul continente africano? Mentre nel Mediterraneo infine, con i venti di guerra che soffiano sul Medio Oriente, pare illogico che Trump ritiri la Sesta flotta. Non fosse altro per evitare uno sgarbo all’amico Netanyahu.