Dare forma alla vita perché il dono non si disperda
Papa Francesco, l’alter pontefice che lascia alla Chiesa un programma arduo

Sono davvero cose dell’altro mondo, e sarà bene non ostinarci a comprenderle attraverso le lenti limitate delle nostre categorie. Quando tentiamo di riempire paginate di giornali o palinsesti televisivi con commenti e analisi sugli eventi ecclesiali, ci accorgiamo che manca sempre qualcosa: un tassello essenziale per ricomporre il quadro.
La scomparsa di un Papa che ha scelto per sé il nome di Francesco, osando rifarsi a quel santo di Assisi descritto come alter Christus, ci lascia oggi più domande che risposte. Forse perché, in qualche misura, Jorge Mario Bergoglio sarà ricordato come l’alter pontefice, un Papa radicalmente diverso dagli altri. Non per la semplice ovvietà che ogni essere umano è unico, ma per una differenza che tocca la natura stessa del pontificato. Persino la sua scelta di essere sepolto fuori dal Vaticano racconta un’autocomprensione “altra” rispetto ai suoi predecessori, senza però mai separarsi dalla comune missione ecclesiale.
Papa Francesco si configura come alter anche per la riconversione profonda del papato che aveva auspicato fin dall’esortazione programmatica Evangelii Gaudium del 2013. E vi è riuscito, non semplicemente attraverso gesti esteriori di “pauperismo” – spesso banalizzati dalla narrazione mediatica –, ma imprimendo una svolta sostanziale. Vale la pena ricordarlo: anche Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI vissero nella sobrietà, senza ostentazioni, accomunati dall’opzione preferenziale per i poveri. Dove, dunque, si situa la vera novità di Francesco?
È riduttivo, persino superficiale, pensare che tutto si esaurisca nelle scarpe logore o nella croce di ferro. Questi sono dettagli funzionali alla cronaca, non alla sostanza. La differenza autentica è nello sguardo “profetico” di Bergoglio, che ha saputo dare voce agli ultimi della terra nelle grandi questioni globali.
C’è dell’altro, dunque, per restare nella metafora: una teologia precisa e una pastorale coerente. Ed è proprio la teologia del popolo a racchiudere in sé grandi opportunità ma anche non trascurabili criticità.
Le opportunità sono chiare: si cristallizzano nella categoria della fratellanza, che Bergoglio ha incarnato con il suo accorato “todos, todos”, richiamo a una partecipazione universale nella costruzione di un’umanità solidale. Una visione fondata sulla libertà e sulla giustizia, dove ogni individuo è pari davanti alla fede e tutto – pianeta compreso – è inscritto in un disegno di vita positiva. Un mondo in cui le fedi si incontrano, le etnie non discriminano, le economie non uccidono ma soccorrono. Una visione talmente “altra” rispetto alle logiche verticali del potere e della politica da scontrarsi inevitabilmente con la dura realtà dei nuovi imperi globali: quelli che saccheggiano la casa comune, le risorse materiali e umane, ampliando senza scrupoli il divario delle disuguaglianze.
Tuttavia, il “populismo buono” di Francesco ha anche esposto il pontificato a rischi non del tutto imprevisti. Le crisi geopolitiche, sfociate in guerre sanguinose e vittime innocenti, hanno riattivato logiche di chiusura: muri, cortine di ferro, frammentazioni linguistiche che dividono invece di unire. È forse qui che Papa Francesco ha vissuto la sua personale notte oscura – per usare un’immagine della mistica cristiana –, di fronte al riemergere di violenze e derive autocratiche nel mondo contemporaneo.
In questo scenario, una maggiore condivisione interna al governo vaticano – a partire dalla Segreteria di Stato – avrebbe forse favorito una sintesi più efficace dei “processi” avviati. Ma proprio questa difficoltà potrebbe rivelarsi, paradossalmente, provvidenziale: non è forse questo il lascito più autentico e coraggioso di Francesco? Non avviene forse sempre così nella storia della Chiesa, dove alla pars destruens – alla rottura necessaria – segue una pars construens, capace di articolare nuove sintesi concrete?
Sono convinto che sia così. E lo spiega bene la logica stessa di San Paolo, figura complementare a quella di Pietro nel primato del vescovo di Roma. Se il Papa, come successore di Pietro, conferma nella fede, è in Paolo che la missione si fa governo, si sistema e si articola.
In altri termini: al carisma deve sempre seguire una ristrutturazione istituzionale che ne consenta la fecondità. Come ammoniva il giurista romano Marciano, vitam istituere: dare forma alla vita perché il dono non si disperda.
Questa lezione vale più che mai per la Chiesa del post-Bergoglio. Se il successore di Francesco saprà raccogliere questa sfida paolina – saldare carisma e istituzione –, avremo non solo un altro Papa, ma un nuovo, fecondo frutto nella storia della Chiesa.
E, in un contesto diverso ma riattualizzato, potremo ancora sentirci dire quel non abbiate paura!
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