"Chi sono io per giudicare?”
Papa Francesco il comunicatore, tutti gli slogan di Bergoglio il peccatore: “Chiesa ospedale di campo, Gesù è gratis, la corruzione spuzza”

Giovanni Paolo II era un attore. Lo era stato davvero, in giovinezza, nei circoli universitari frequentati in Polonia, e quando salì al soglio pontificio porto con sé tutta la perizia di quell’arte, intesa come capacità di incarnare la parola con tutte le risorse della corporeità (tono, gesto, modulazione della voce). Era anche un genio della parola.
“Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo”. Difficilmente un esperto di comunicazione – ha detto Marco Damilano in una recente intervista – avrebbe potuto immaginare una formula più efficace di quella con cui Karol Wojtyla inaugurò il suo pontificato il 22 aprile 1978. Da Papa Benedetto XVI non ci si poteva aspettare tutto questo, e fu ingeneroso chi descrisse come un limite l’incapacità di eguagliare un tale predecessore: “non arriva come Giovanni Paolo”, gli si contestò, come se un da un teologo silenzioso e dedito allo studio ci si potesse aspettare l’incisività di un ex attore e drammaturgo. Nessuno gli poté contestare, d’altra parte, la lucidità del pensiero che seppe farsi parola densa e precisa.
Papa Francesco e la banalità del pensiero
Papa Francesco non era una cosa né l’altra, ma anche lui “arrivava”. Arrivò subito, e non con la forza dell’uomo da palcoscenico, ma con il tono didascalico del buon parroco di paese, che sa dire cose semplici, comprensibili a tutti. La cifra della sua comunicazione fu proprio la vicinanza: l’impressione era che sentisse e dicesse le cose come le avrebbe potute dire l’ultimo dei fedeli in parrocchia. Non è mancata, in tal senso, l’accusa di una certa banalità del pensiero, di un furbo ricorso all’accattivante luogo comune. Dietro il buon parroco c’era il gesuita, l’uomo educato all’ordine, alla chiarezza degli obiettivi, e – perché no? – all’esercizio del potere. “Posso forse dire che sono un po’ furbo, so muovermi, ma sono anche un po’ ingenuo” disse di sé.
Gli slogan di Papa Francesco
La sua semplicità era sincerità ma anche progetto, freschezza ma anche urgenza programmatica. Ha parlato a un mondo cristiano non più solo europeo, che non era il suo, e ha parlato con le corde del cuore, sempre incarnando quell’energia gioiosa, e per questo anche ironica, che l’annuncio cristiano porta con sé. Si leggono in questa chiave sue – apparenti ? – ingenuità comunicative (“Chi sono io per giudicare?”: non sapremo mai quanto fossero parole in libertà, queste sull’omosessualità, o debitamente studiate per una scossa), ma anche le sue formule più semplici e potenti, che forse segneranno il suo ricordo più di tanti importanti provvedimenti. Tra le più memorabili c’è l’immagine della Chiesa come “ospedale da campo”, che fu da subito un chiaro programma politico del pontificato.
“Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto”. Più volte parlò invece dell’urgenza di una “Chiesa in uscita”. Furono slogan diretti e potenti anche le tante indicazioni correttive alla Chiesa: “Gesù è gratis”, chiarì nell’Udienza Generale del 16 dicembre 2015. “La Chiesa non è una dogana”, spiegò per il decreto contro gli abusi nelle offerte. Ricorse al paradosso sorprendente del buon saggio: “Non basta non parlare male degli altri, bisogna interrompere quando sentiamo parlar male di qualcuno” (Angelus del 18 agosto 2018) e non si accontentò della dichiarazione coraggiosa, a Napoli, quando dovette definire la corruzione, ma scelse la cifra dell’offesa gratuita, persino dello sfrontato bullismo: “la corruzione spuzza”, una trovata che per rendersi indelebile si nutrì anche della simpatica sgrammaticatura (il “mi corrigerete” di Giovanni Paolo II aveva fatto scuola).
“Sono un peccatore”
Francesco fu uomo della parola ma seppe comunicare anche con le parole degli altri: tante volte si poggiò su quelle dei pontefici suoi predecessori, con umiltà e senso della tradizione, ma seppe chiederne anche ai giovani, ai quali chiese di scrivere le meditazioni della Via Crucis del 2018. Seppe parlare con la potenza simbolica dei gesti (apertura del Giubileo con i carcerati) ma anche con la forza del silenzio, come davanti al Crocifisso di San Marcello al Corso durante pandemia. Ma c’è un’altra sua formulazione sintetica che non possiamo dimenticare, una parola su di sé, di autocoscienza. Nella sua prima intervista da pontefice, padre Antonio Spadaro, con cui interloquiva, gli chiese a bruciapelo: “Chi è Francesco?”. “Sono un peccatore!” rispose subito lui. Poi continuò a pensarci, come se sentisse bisogno di completare quella risposta. “La sintesi migliore, quella che mi viene più da dentro e che sento più vera, è proprio questa: sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”.
Questo è stato Francesco: un peccatore al quale il Signore ha guardato. È la sintesi più coerente del suo pontificato: lo sguardo su di sé è lo sguardo che ha portato al mondo, agli ultimi ma anche a chi ha sbagliato. Gli saremo grati per tante ragioni, alcune le dobbiamo ancora scoprire.
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